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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

INGRAO

Pietro Lenola (Latina) 30 marzo 1915. Politico. Comunista. Di Rifondazione. «È rimasto storico il voto con cui Ingrao radiò gli ingraiani dal suo partito» (Nello Ajello) • Tra il 34 e il 35 frequenta il Centro sperimentale di cinematografia come
allievo regista. Si laurea in Giurisprudenza e Lettere e Filosofia all’Università di Roma, dove entra in contatto con altri studenti antifascisti. Nel 39
partecipa all’attività antifascista nell’Università di Roma, nel 40 entra nel Partito comunista. Nel luglio del 43 si trova a
Milano, dove lavora alla stampa clandestina dell’Unità e, dopo l’8 settembre, È attivo nella Resistenza a Milano e a Roma. Dal 47 al 57 È direttore dell’Unità. Nel 48 entra nel comitato centrale del Pci e viene, anche, eletto deputato per
la prima volta: È rieletto per dieci legislature consecutive. Nel 56 entra nella segreteria del
Pci, dove resta per dieci anni. Al Congresso del Pci, nel 66, rivendica il «diritto al dissenso». Nel 68 È eletto presidente del gruppo parlamentare comunista della Camera. Il 5 luglio
76 È eletto presidente della Camera. Resta in carica fino al 79. Nell’89 si oppone alla svolta di Achille Occhetto che trasformerà il Pci in Pds, ma È contrario ad ogni ipotesi di scissione. Nel 91 aderisce al Pds come leader dell’area dei Comunisti Democratici. Nel 93 abbandona il partito
• «Mio nonno Francesco era nato a un passo da Agrigento, a Grotte, paese di
zolfatari, contadini e proprietari terrieri, come era appunto la famiglia
Ingrao. Francesco È una figura del Risorgimento: cospiratore antiborbonico dagli anni del liceo, e
mazziniano: combatte con Garibaldi a Varese, poi tesse congiure repubblicane
contro i moderati, e nel 68 sta per essere ammanettato dalla polizia regia
sabauda. Riesce a fuggire nascondendosi nelle campagne di Caltanissetta; poi
risale la penisola fino a Napoli, quindi a Lenola, dove vive uno zio,
cospiratore anche lui ai tempi della carboneria. Lenola È a un passo dal confine dello Stato Pontificio; quando c’È odore di sbirri, Francesco scavalca la frontiera e trova salvezza a Roma,
ancora papalina. Ma a Lenola s’innamora della cugina Marianna, giovanissima. Quell’amore viene scoperto dal padre di Marianna; mio nonno fa atto di pentimento e
torna in Sicilia. Ma dopo lunghe traversie quel matrimonio si farà. Francesco resterà a Lenola e diventerà sindaco. Quando morì avevo tre anni. Mi pare di ricordare un pomeriggio in cui mi vengono a prendere
all’asilo. Sul viottolo che porta a casa, mi dicono: “È morto il nonno”. Di lui mi È rimasta la leggenda, e il ricordo del suo studio rimasto intatto e serrato:
come una pagina di memoria intoccabile. Io vi entrai da grande. Avrò avuto diciotto anni»
• «Partecipai ai Littoriali della Cultura del 34. A quelli di critica teatrale, con
la proposta di un Teatro sperimentale: avevo in mente le esperienze di un
regista di genio, Anton Giulio Bragaglia. E alla gara di poesia, con una breve
lirica che si intitolava Coro per la nascita di una città esaltava Littoria e la bonifica delle paludi pontine fatta dal regime. Era una
poesia francamente brutta, ma a quei Littoriali di Firenze arrivò terza, dopo i testi di Sinisgalli e Bertolucci. Anni più tardi, quando ormai lavoravo all’Unità dopo la partecipazione alle dure lotte della Resistenza, quella poesia su
Littoria mi fu rinfacciata da un giornale di destra, Il Tempo mi pare. Arrossii
di vergogna. Chiesi a Togliatti se dovevo lasciare quel giornale di Gramsci.
Togliatti mi rispose con una sghignazzata: “Perché vuoi fare questo favore a dei balordi reazionari?”»
• «Io ho cominciato da giornalista, il 26 luglio del 43. Quand’ero direttore dell’Unità inventai la diffusione volontaria: anziché al mare, i militanti andavano con le copie sotto il braccio a farsi insultare
nei condomini borghesi. Sono diventato deputato nel 48, ho presieduto la Camera
negli anni di piombo, ma non c’È mai stato tra gli schieramenti un clima cupo e chiuso come ora. Gli anni dello
scelbismo sono stati durissimi, la polizia sparava sugli operai, però in Parlamento si parlava. Se il mattino accadeva un fatto importante, la sera
De Gasperi o il ministro venivano a riferire» (da un’intervista di Aldo Cazzullo)
• «Lo stalinismo È stato un errore così grande che È bene ribadirne il rigetto. Io stesso ho riconosciuto lo sbaglio dopo qualche
tempo, ma le cose non erano così semplici. La figura di Stalin non ha un solo volto. Io ho partecipato all’emozione per la sua morte, perché Stalin era il vincitore del nazismo, l’uomo che aveva preso Berlino. Non ho saputo rompere in tempo, e ora l’età mi restituisce il peso del più grande errore della mia vita. Ma fu un errore diffuso, Togliatti ad esempio era
un grande ammiratore di Stalin, e Krusciov ci rimproverò per questo con violenza. Di Castro ho un’opinione niente affatto buona, e non da ora. Quando andò al potere passai un mese a Cuba, e non mi piacque. Mancava, come dire... Libertà È una parola grossa. Diciamo che mancava l’articolazione, la differenza. Una voce che non fosse la sua. I comizi li faceva
solo lui: ore e ore da solo sul palco. Per riprenderci andavamo a fare il
bagno, nelle conche sulla spiaggia dell’Avana. Chiedevo: di chi sono questi stabilimenti? Dello Stato, mi rispondevano.
Mi appariva così assurdo. Il comunismo non poteva essere lo Stato che fa il bagnino. Tantomeno
lo Stato che condanna a morte. Mao lo incontrai per la prima volta nel novembre
del 57, dopo il XX congresso e prima della rottura tra sovietici e cinesi: fu l’ultima grande riunione dell’Internazionale comunista. Mao venne a trovare Togliatti e me nella dacia dove
alloggiavamo. Era un uomo di grande suggestione, però disse cose terribili: il comunismo vincerà, al prezzo di centinaia di milioni di morti. Mi parve eccessivo. Per fortuna
non È andata così»
• «Sulla storia aleggia qualcosa che rasenta il mistero: ed È il seguito di cui ha goduto il suo protagonista all’interno del Pci, soprattutto presso la base giovanile emarginata e
protestataria. Antonio Galdo, militante nei tardi anni Settanta d’un collettivo universitario, ricorda che, “quando si discuteva del Partito comunista, sempre criticamente, un solo nome
riusciva a metterci tutti d’accordo. Era quello di Ingrao”. L’enigma si rafforza di fronte a un’ennesima ammissione autocritica di Ingrao (“Come capo di corrente valgo un fico secco”) e assume le tinte del martirologio se si pensa alle rappresaglie che nel Pci
si scatenarono contro gli ingraiani dopo la sconfitta subìta dal loro capo all’XI congresso del Pci (66), quando le sue tesi “di sinistra” furono sopravanzate — per ricordarlo in sintesi — da quelle, opposte, di Giorgio Amendola. È un ex ingraiano perfino quell’Achille Occhetto che, cambiando fra l’89 e il 90 il nome e la collocazione del partito di cui È segretario, induce Ingrao ad abbandonare la casa politica che lo ha accolto per
più di mezzo secolo» (Nello Ajello)
• «Sul perché del fascino esercitato da Pietro Ingrao, in stagioni diverse, su tanta parte
della sinistra italiana, si sono interrogati in parecchi, anche molto lontani
dalla sua parte. Gli estimatori hanno posto l’accento soprattutto sulla passione politica, sulla tensione intellettuale, sulla
fibra morale: tutte qualità incontestabili dell’uomo. Gli avversari, sulla fumosità dell’analisi, della proposta e, conseguentemente, del linguaggio; sull’astrattezza, sulla vocazione alla sconfitta: tutti vizi ben radicati nella
sinistra. Ingrao, magari, non ne sarà tanto lieto. Ma forse la spiegazione più azzeccata È quella che diede Indro Montanelli, quando il vecchio Pietro si oppose alla “svolta” di Achille Occhetto e diede battaglia in nome di un comunismo che per lui
restava al tempo stesso un “grumo di vissuto” di tutta una comunità e un insopprimibile “orizzonte”. Scriveva Montanelli: “Ha un volto rincagnito e parla con un plumbeo accento ciociaro. Eppure non si può guardare senza provare per lui un profondo rispetto. Ciò che dice può essere sbagliato, ma il suo È un dramma autentico, senza nulla di recitato, anzi contenuto nei toni più sommessi: il dramma di un uomo che, messo alla scelta tra una carriera e una
bandiera, sta con la bandiera, pur ridotta a un brandello”. Il comunismo cui Ingrao non intende proprio rinunciare È, né più né meno, lo “stare dalla parte degli sfruttati”» (Paolo Franchi)
• Ha raccontato la sua vita in Volevo la luna (Einaudi, 2006).