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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

GRASSO

Piero Licata (Agrigento) 1 gennaio 1945. Giudice. Superprocuratore antimafia (dal 2005) • «Giudice a latere della Corte di Assise del più grande processo mai celebrato contro l’organizzazione criminale chiamata Cosa Nostra. Quando entrò nell’aula bunker gli mancò il respiro. “Ho sentito un nodo alla gola. L’emozione è durata solo un istante”. Si stava processando per la prima volta la mafia. Pietro Grasso aveva allora
41 anni, aveva lo stesso sguardo un po’ romantico, la stessa quiete che qualcuno - a volte e a torto - ha scambiato per
debolezza o peggio per rinuncia. Era il 10 febbraio dell’86, verso le 9,30 del mattino. “Mi ricordo quanto ero teso nei primi minuti, mi ricordo ogni faccia di quella
giornata. Ma già da qualche mese ero entrato nel mondo di Cosa Nostra, mi ero già immerso in quella realtà che avrebbe segnato il resto della mia esistenza”. Giudice a latere per modo di dire, è stato in realtà l’anima del maxiprocesso di
Palermo, l’estensore della sentenza, il motore dell’organizzazione» (Attilio Bolzoni) • «Mi chiamò il presidente del Tribunale Francesco Romano per informarmi che mi aveva scelto
come giudice a latere, mi spiegò che avrei dovuto lavorare tanto. Andai a trovare Giovanni Falcone nella sua
stanza, lui si alzò, mi portò in fondo all’ufficio istruzione, aprì una porta e disse: “Ti presento il maxiprocesso”. Mentre lo diceva mi guardava con la coda dell’occhio per capire quale fosse la mia reazione. Davanti a me c’erano quattro pareti coperte da 120 faldoni. Quando chiesi a Falcone “dov’è il primo volume?”, lui sorrise e cominciò la mia avventura nel maxiprocesso. Quale era il primo volume? Era il rapporto
del commissario Ninni Cassarà sulla nuova mafia, il rapporto denominato Michele Greco + 161. Avevo anche la
responsabilità organizzativa, andavo a verificare i lavori dell’aula bunker accanto all’Ucciardone. Prevedendo una lunga camera di consiglio, ho suggerito ai
progettisti di spostare una finestra blindata e farla aprire su un cortiletto
dove potevamo prendere aria. Fu la nostra fortuna, in quei 35 giorni di camera
di consiglio nel cortile facevamo ginnastica, guardavamo le stelle,
respiravamo. Il momento decisivo del maxiprocesso? Quando il boss Giovanni
Bontate lesse un documento in aula dove si dissociava dall’omicidio di un bambino. Durante il maxi a Palermo non c’era stato un alito di vento, non un omicidio, non un rumore. Ma qualcuno uccise
in una borgata un bimbo, il piccolo Claudio Domino. I mafiosi decisero che era
più importante far sapere che non erano stati loro piuttosto che perdere il
consenso sociale, piuttosto che far credere che loro avessero potuto uccidere
un bambino. E con quella dichiarazione di Bontate, per la prima volta un
mafioso pronunciò la parola “noi”: noi, significava noi mafiosi. Loro stessi ammettevano la loro esistenza. Era
senza precedenti. Nessuno ha mai detto: io sono innocente. Tutti ripetevano
ossessivamente: io sono estraneo. L’obiettivo era negare, negare l’appartenenza a quella cosa che era la loro organizzazione. Con il proclama di
Bontate le cose cambiarono»
• «Sono fatalista. Se non avessi trovato un posto sull’aereo Roma-Palermo venerdì 22 maggio 92, il giorno dopo sarei volato in Sicilia con Giovanni Falcone e
Francesca Morvillo. Stesso aereo, stessa auto... Se non ci fossero stati degli “inconvenienti”, Giovanni Brusca avrebbe deciso di mettere il tritolo in un’auto già pronta davanti alla casa di mia suocera a Monreale... Insomma, il destino ha la
sua parte in questa commedia. Io lascio al destino di giocare la sua partita e
non rinuncio alle mie partite di calcio allo stadio o al campetto, a qualche
colpo di tennis, a un’uscita in barca cercando di evitare il ridicolo di starmene in braghe sul
windsurf mentre mi insegue una motovedetta dei carabinieri» (da un’intervista di Giuseppe D’Avanzo).