Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
GIRAUDO
Antonio Torino 2 settembre 1946. Manager. Ex amministratore delegato della Juventus. «A volte ho il dubbio che in Italia non si sia ancora capito cosa è diventato davvero il calcio» (nel 2001) • In carica dal 94, formata con Luciano Moggi e Roberto Bettega la cosiddetta
Triade che ha condotto i bianconeri a 7 scudetti (95, 97, 98, 02, 03, 05, 06,
questi ultimi due revocati), una Champions League (96), una coppa
Intercontinentale (96), una supercoppa Europea (96), una coppa Italia (95),
quattro supercoppe italiane (95, 97, 02, 03). Assolto in primo grado e in
appello per il processo doping. Il processo sportivo susseguente allo scandalo
Moggi lo ha inibito per cinque anni da tutte le cariche. Giraudo, che fu
potentissimo (come si evince dalle fonti che seguono) è perciò oggi fuori, presumibilmente per sempre, dal mondo del calcio
• «Laureato in Economia e Commercio, dagli anni Ottanta inserito nel Gruppo Fiat,
Antonio Giraudo a pieno titolo è il dottore alla Juventus, con la “d” minuscola soltanto per distinguerlo da Umberto Agnelli. Distinto, impettito, più che un dirigente di calcio Giraudo ha l’aspetto di un professore della Bocconi e la laurea honoris causa ben gli si
addice dal 9 maggio del 94, giorno in cui si è insediato alla guida della Juve con il compito non facile di ripianare un
bilancio in rosso per una cinquantina di miliardi delle vecchie lire. Se
Luciano Moggi è il manager del pallone, Giraudo per sua stessa ammissione preferisce rimanere
defilato, occuparsi dell’azienda più che dei suoi “dipendenti”» (Francesco Bramardo)
• «Comincia a dieci anni la carriera di amministratore delegato di se stesso, e lo
fa suonando il campanello dei vicini di casa: famiglia Colombo, via Filadelfia,
Torino. è il 56. La famiglia Colombo è proprietaria di un magnifico balcone con vista sullo stadio del Toro, e il
piccolo Giraudo è ospite a domeniche alterne di quel prototipo di tribuna vip, dove mangia la
torta insieme all’amico Claudio e guarda tra i gerani e le petunie, “a gratis”, le partite della sua squadra del cuore: granata. Siccome il Giraudino non ama
scroccare, e ha già capito che il succo della vita non è il sentimento ma il mercato, cede all’amico Claudio e alla di lui famiglia i diritti televisivi del suo apparecchio
Phonola ventuno pollici bianco e nero. In cambio del palco d’onore con ringhiera, offre il periodico utilizzo di un bene che a quell’epoca possiedono in pochi, appunto la tivù. Trascorsi quarant’anni abbondanti, è diventato il vero padrone del calcio italiano. Più di Galliani, che ne è amico e lo copia. Più dei mecenati Sensi e Moratti, nati stramiliardari (invece Giraudo lo è diventato). Il primo segreto di Antonio Giraudo, torinese aspro, non falso e
non cortese, antipatico, decisionista, arrogante, permaloso, serio, pragmatico,
gran tagliatore di teste e di conti, si chiama Umberto Agnelli. Ne è stato segretario, poi amministratore dei beni personali, quindi testa di ponte
nel settore immobiliare, pilota nel progetto Sestriere (neve artificiale
sparata dai cannoni, meeting d’atletica, tappe di Giro d’Italia e Tour), infine uomo Juventus da quando l’Avvocato ha passato il giocattolo al fratello, nel 94. Alla guida dei bianconeri
ha vinto molto, perduto un po’, rivinto. L’ex bambino del balcone ha risanato il bilancio (sei gestioni consecutive in
attivo). Ha imposto i “contratti a prestazione”: si guadagna tanto solo se si vince. Ha ottenuto la gestione dello stadio Delle
Alpi dopo otto anni di lotte col Comune, minacce, ricatti, fughe della Juve in
altre città. Ha preteso 200 milioni perché i bianconeri partecipassero a un torneo a Salerno in memoria di un loro
giocatore morto di leucemia, Andrea Fortunato. Si è accorto di quell’errore e ha fatto beneficenza a favore dell’ospedale infantile Gaslini di Genova. Ha imposto alla Juve Luciano Moggi, reduce
da un’inchiesta sullo sfruttamento della prostituzione (la storia delle interpreti per
gli arbitri del Torino). Ha ammesso gli ultras al tavolo delle trattative per
il contratto di Roberto Baggio che poi ha venduto, come Zidane. Ha usato la
curva in maniera disinvolta (eufemismo). Ha dettato e fatto appendere uno
striscione contro il suo storico nemico Cesare Romiti, colui che lo emarginò dalla Fiat per motivi mai chiariti del tutto» (Maurizio Crosetti)
• «Bisognerebbe parlare della sua vita, di quando le ville erano quelle degli altri
e il padre lavorava anche la domenica per mandarlo all’università. Pensava sarebbe venuto su un buon cacciatore perché vivevano a un passo dalla tenuta di Stupinigi. Invece al piccolo Antonio
piaceva il calcio, girava per oratori ed era un buon mediano. Era alto e
picchiava, gli davano la maglia numero quattro, quella che negli anni Cinquanta
e Sessanta si dava a chi doveva marcare il numero dieci, quello che sa giocare
e si crede sempre l’erede di Pelé. Giraudo picchiava e correva, gli piaceva marcare i numeri dieci, riportarli
alla sua realtà, che è quella di una vita sempre di corsa e sempre di rabbia» (Mario Sconcerti)
• «Vissi il 68 come un trauma perché per me era una perdita di tempo. Mio padre non aveva fatto sacrifici per farmi
cambiare la società o la scuola. Voleva che i Giraudo di domani avessero un’occasione in più. Non potevo stare lì a far discorsi. A Torino era dura la scuola ed era duro trovarsi poi un lavoro.
Torino non scherza, Torino vuole solo il meglio».