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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

FUKSAS

Massimiliano Roma 9 gennaio 1944. Architetto. «Per questa vita ho deciso di fare l’artigiano» • «Autore di opere come le Twin Towers di Vienna e il Peace Center di Jaffa voluto
da Shimon Peres e Arafat, la sede della Ferrari a Maranello e gli Europark di
Salisburgo, la nuova Fiera di Milano (ormai nota come l’onda, per l’incedere sinuoso della sua copertura in vetro e acciaio) fino all’attesissimo Palazzo dei Congressi dell’Eur» (Massimo Di Forti) • «Fuksas è un nome curioso, all’orecchio italiano. E infatti appartiene a un architetto eccentrico. Fuksas,
etimologicamente, contiene “Fuchs”, che in tedesco è volpe. E non pochi, dentro il gran circo dell’architettura, ritengono che il progettista romano sia un bel volpone: non nel
senso del vecchio avido tramatore della commedia elisabettiana di Ben Jonson,
ma in quello di simpatico e astuto edificatore della propria carriera nello
star system. C’è sempre stata qualche malizia, intorno a Massimiliano Fuksas; e la malizia è figlia femmina dell’invidia. Sarà per la sua estraneità al salotto della borghesia illuminata disciplinare sull’asse Milano-Roma-Venezia; sarà per i suoi dieci anni di esilio professionale in Francia, quando “comandava Mitterrand”; sarà per la quantità di commesse pubbliche acquisite dopo il rientro in patria; o forse per aver
importato un look “fashion system”, cranio pelato, abiti neri genere Yamamoto e una vaga luciferina somiglianza
con Jean Nouvel. Insomma, questo Fuksas coi sopracciglioni e il sorriso
accattivante, che da studente a Roma ricordavano destrorso e che trent’anni dopo, alla Biennale di Venezia, si udì lodare il comunista Bertinotti, in Italia crea un certo dispetto» (Enrico Arosio)
• «Della libertà di azione, ma prima ancora della libertà di scelta, sembra essersi autoeletto paladino. E non per eccesso di amor
proprio. Per necessità piuttosto. Quel genere di necessità caparbia, essenziale, che tende allo scopo mantenendosi attentissima ai
dettagli, ma incurante degli incidenti di percorso» (Lisa Ginzburg) • «Sembrerà strano, ma per l’architetto Massimiliano Fuksas la prima fonte d’ispirazione è il cinema. E non quello di Fritz Lang, il regista di Metropolis, ma del grande mago del brivido, Alfred Hitchcock. “Piano sequenza, inquadrature dominate da luci e ombre, tensione dell’attesa”, spiega Fuksas: “L’architettura nasce da altro, non è figlia di se stessa...”. Il cinema è fatto di sequenze, e così dovrebbe essere fatta l’architettura. A dispetto della sua stabilità, ogni edificio, sia pubblico che privato, dovrebbe suggerire movimento,
dinamismo. “Il movimento è vita. La realtà è fatta di cambiamenti, di sorprese, di infinite possibilità”, dice Fuksas: “E se l’architettura è chiamata a interpretare la vita reale, allora dev’essere adatta a ospitare l’inestinguibile pluralità di scelte e di indirizzi. L’architettura deve andare contro la fisicità degli oggetti, deve dare movimento alla staticità”» (Rita Tripodi)
• «L’architettura del Terzo Millennio deve essere gentile. Gentile come attenzione
verso gli individui, i loro desideri, i bisogni della comunità. E verso l’ambiente. Proprio perché l’architettura contemporanea oggi è chiamata a realizzare megastrutture, queste grandi strutture debbono avere un
quid di gentilezza. Ho cercato di dare quest’impronta alla mia “onda” per la Fiera di Milano e anche il nuovo Palazzo dei Congressi all’Eur deve avere questo rapporto con i luoghi e con le persone. Perché alla fine del proprio itinerario creativo, l’obiettivo di un architetto dev’essere quello di dare agli esseri umani una migliore qualità della vita e renderli un po’ più felici»
• «Il mio bisnonno faceva il mercante di sale a Kaunas, in Lituania. Era di
religione ebraica e gli ebrei non potevano studiare nell’impero russo. Così mandò mio nonno a laurearsi a Heidelberg, in Germania. Là conobbe mia nonna, cittadina tedesca. A mio padre toccò invece in sorte studiare medicina a Roma. Sono stato studente a Valle Giulia,
la facoltà di Architettura a Roma, alla fine degli anni Sessanta. C’era un grande movimento, non eravamo legati a nessun partito, e i gruppuscoli
marxisti-leninisti erano marginali. Contava l’idea che le persone si formavano sul cambiamento della società. Per noi l’Università era un luogo fondamentale, ci piaceva stare lì, era un punto di riferimento, non la trovavamo squallida e triste, anzi penso
che molti hanno poi deciso di rimanerci come ricercatori e più tardi come docenti proprio perché a quel luogo si erano affezionati. Ricordo le lunghe passeggiate di notte, da
un bar a una trattoria con Oreste Scalzone e Franco Piperno, i futuri fondatori
di Potere operaio, avevamo un’età tra i 23 e i 25 anni, guardavamo al Che Guevara e al terzo mondo, ma anche ai
problemi della giustizia sociale in Italia. Tutto ci sembrava possibile. Per
lavorare, dopo la laurea, illudendomi che avesse ragione Mao e che si dovesse
conquistare la periferia per arrivare al centro mi misi a fare progetti per
piccoli comuni, là dove c’era magari un assessore democristiano illuminato o un comunista un po’ fuori le righe, oppure un artista, come quello di Civita Castellana, che era un
pittore. Nacque così il mio progetto per la palestra di Paliano, che tanto piacque in Francia. Ai
francesi piaceva quello che facevo, organizzarono gruppi di studio per venire a
vedere cantieri che nel frattempo erano diventati ruderi. Decisi di aprire uno
studio a Parigi» (da un’intervista di Rocco Moliterni)
• «All’estero è tutto più semplice: anche perché da noi, prima si fa il progetto, poi si cercano i finanziamenti. In tutte le
altre parti del mondo, è l’opposto: prima i soldi, poi il progetto. In Italia, anche per questo, un
progetto può rivelarsi assai faticoso da gestire e da portare avanti» (da un’intervista di Stefano Bucci) • «Questo è un paese che paga un prezzo preciso. Paga quel che è successo dal 64-65 ad oggi. Io sono convinto che si tratta di una data
decisiva. In quel momento si erano risolti i danni della guerra e le angosce
della ricostruzione. Dopo il neorealismo ci si stava orientando verso una
maggiore apertura intellettuale. La borghesia era sobria, la gioia di vivere
tanta. Una grande occasione mancata. Perché non si è saputo cogliere la portata trasformativa che era insita in quel momento. Allora
il paese poteva andare avanti, e non lo ha fatto. Poi è arrivato il 68, che ai miei occhi (troppo interni forse, ma comunque attenti)
altro non è stato che una ideologizzazione di qualcosa che sino ad allora non era ancora
ideologico. In gioco era l’opportunità di un ricambio generazionale, radicale, rivoluzionario. Ma non è stata còlta. Il risultato è che questo, oggi, è un paese vecchio»
• «Io vivo e lavoro a Roma, per Roma, da sempre. Ma mai nessuno che mi abbia
proposto un qualche incarico politico, foss’anche il consigliere di circoscrizione. Perché? Perché io critico, critico sempre» • Tifoso della Roma.