Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
FO Dario San Giano (Varese) 24 marzo 1926. Attore. Scrittore. Premio Nobel per la Letteratura 1997. «Ho recitato persino in Cina e negli Stati Uniti
FO Dario San Giano (Varese) 24 marzo 1926. Attore. Scrittore. Premio Nobel per la Letteratura 1997. «Ho recitato persino in Cina e negli Stati Uniti. La cosa bellissima è però scoprire di essere l’unico autore vivente rappresentato ogni giorno in 400-500 teatri. Ciò vuol dire che sono stato tradotto in tutte le lingue esistenti» • «L’attore italiano più adorato nel mondo, lo scrittore di teatro più rappresentato all’estero (oltre 67 paesi), il Nobel più eclettico e divertente, l’artista più appassionatamente democratico» (Anna Bandettini) • «“Popolo del miracolo, / miracolo economico / oh popolo magnifico / campion di libertà... / Su cantiam, su cantiam / evitiamo di pensar, / per non polemizzar / mettiamoci a cantar. / Facciam cantare gli orfani, / le vedove che piangono / e gli operai in sciopero / lasciamoli cantar...” Fu usando questo allegro coro come sigla di Canzonissima che Dario Fo (non senza Franca Rame) si fece conoscere nell’autunno del 62 anche dagli italiani che guardavano solo la tv in bianco e nero e non andavano a teatro. Non gradirono però l’estro del poeta i censori della vecchia, e ormai beneamata, Rai di Ettore Bernabei. Dopo sette tribolatissime puntate, scandite da tagli e ritagli, Dario e Franca, spintonati e messi alle corde, lasciarono clamorosamente la trasmissione abbinata alla lotteria nazionale, provocando un putiferio che non è stato dimenticato. Che l’attore fosse un tipo insolito e irriverente si sapeva già allora (proprio per questo era stato scelto). Quello strano spilungone dai movimenti snodati si era imposto sul palco del Piccolo di Milano nel 53 con uno spettacolo di rottura, il fulminante Dito nell’occhio, animato anche da Franco Parenti e Giustino Durano. Fino al 68 la sua carriera, ancorché non conformista, si era svolta nel circuito tradizionale, con crescente successo, dalle prime farse (La marcolfa, Gli imbianchini non hanno ricordi) fino alle grandi commedie (Gli arcangeli non giocano a flipper, Isabella, tre caravelle e un cacciaballe...). la contestazione e la stagione delle stragi convincono il duo Fo-Rame a girare prima nelle Case del popolo con l’appoggio dell’Arci, e poi, dopo una fragorosa rottura col Pci, con strutture proprie. I testi del nuovo corso (dal Pupazzone a Morte accidentale di un anarchico sul caso Pinelli) sono più aspri e aderenti all’inquieta realtà, ma la vocazione comica è sempre altissima, come dimostrerà qualche anno dopo l’ormai leggendario Mistero buffo, bersagliato dai cattolici oltranzisti. Diventato il simbolo amato-odiato dell’eresia di sinistra, Fo suscita scandalo anche quando conquista il Nobel» (Claudio Carabba) • «Io dalla vita ho avuto più di quello che chiedevo. Volevo fare il pittore e l’ho fatto, conoscendo i maggiori artisti. Volevo fare teatro e l’ho fatto con la soddisfazione di essere rappresentato in tutto il mondo. Volevo rompere le scatole e le ho rotte…. Mi ritengo di una fortuna sfacciata» • «La favola inizia sul primo vagito, un mattino di marzo del 26, mentre sulla ferrovia l’omnibus delle sei e mezza veniva fermato dall’autorevole drappo rosso agitato da Felice Fo, padre di Dario, capostazione di San Giano. “Così fu per decisione delle Ferrovie dello Stato, quindi di Dio, ai miei occhi di bambino il vero direttore generale delle Ffss, che organizzava i movimenti dei ferrovieri, dei treni e la nascita dei figli dei capistazione”. Tant’è che, poco dopo, Pa’ Fo vien spostato con la famiglia qualche stazione più in là, prima a Primo Tronzano, poi a Portovaltravaglia, i “paesi delle meraviglie” dove Dario, come un giovane Gulliver, si muoverà alla scoperta del mondo. Dalla vicina Svizzera, fantasticata con le case di cioccolato e poi scoperta terra di anarchici e di “spalloni”, al mondo del lago, coi suoi ciarlatori e fabulatori capaci di incantare con storie tratte da cronache locali o da pettegolezzi da lavatoio e da loro trasformate in poemi epici. “Un vero master di Giullari: ho rubato a man bassa”, ammette. E anche il famoso gramelot, la lingua universale che non c’è ma che si fa capire ovunque, viene da lì: “Colpa dei maestri soffiatori, arrivati fin lì da mezza Europa. Ancora oggi sull’elenco del telefono di quei paesi si trovano tanti nomi ‘foresti’, francesi, tedeschi, polacchi, spagnoli... Un minestrone linguistico in continua ebollizione, un crogiolo di culture antidoto naturale contro ogni forma di razzismo, dove tutti lavoravano, tutti si rispettavano”. In quel mondo piccolo dai tratti “internazionali”, si usa dare i soprannomi. Dario, lungo lungo secco secco, è naturalmente “lo smilzo”. “Non potendo competere con i muscoli, mi facevo valere dipingendo e raccontando storie. Avevo successo. Quando facevo il pendolare con Milano per frequentare l’Accademia, il mio scompartimento era sempre affollato. Ci chiamavano il ‘Caravan dei ciuch’, la carovana degli ubriachi”. Qualche anno dopo ai tavolini del Giamaica, il mitico locale di Brera frequentato da artisti squattrinati, teneva banco ai suoi compagni di corso, da Morlotti a Peverelli ad Alik Cavaliere, imbastendo lì per lì irresistibili caricature dei grandi maestri. “Tra le satire più richieste quella di Carrà che costringeva la moglie a posare per una delle sue celebri marine ma nel ruolo di un cane; o quella di De Chirico che rifaceva a ritmi da catena di montaggio la stessa tela con piccole varianti secondo le richieste del mercante...”. E con Tadini, suo grande amico, organizza una beffa da manuale, facendo credere a critici e giornalisti che Picasso sarebbe venuto a Milano per inaugurare una mostra. “Al suo posto arrivò Otello, un bidello. Piccolo, pelato, la faccia identica al grande Pablo. Ci cascarono tutti”. Tra i personaggi indelebili, il nonno Bristìn, maestro di clownerie e di botanica. “Mi ha insegnato a guardare col naso, ad ascoltare gli odori e i profumi”. Non da meno la madre, Giuseppina, dotata di poteri paranormali, capace di parlare coi vivi come coi morti. E Lucy, la giovane sirena che lo ammalia nuotando nel lago: “Il primo amore, grande e doloroso. è durato tre anni, poi lei sposò un altro”. Tempo Sereno erano invece il cognome e nome “veri” di un giardiniere già finito tra i personaggi di una commedia di Fo, Gli arcangeli non giocano a flipper. “Suo fratello — ricorda Dario — si chiamava Tempo Nuvoloso: la prova che il lago è una fucina di pazzi. Chi dice che mette malinconia non lo conosce. Malinconiche sono le grandi ville dei ricchi, ma per la gente comune è miniera di fantasia e vitalità. Non a caso intorno ai laghi nascono spesso scrittori, attori, cronisti”. Il drammatico periodo della Repubblica di Salò, quando per sfuggire alla deportazione in Germania, il giovane Fo si arruolò tra i parà di Varese. Il funerale del padre. Pa’ Fo morì a 90 anni nell’87, lo stesso giorno di Piero Chiara, suo conterraneo. “I due funerali si incrociarono: chi era venuto per Chiara, vedendo l’imponente corteo di mio padre con la Banda degli Ottoni e le bandiere rosse, pensò si trattasse dello scrittore ‘mangiapreti’. E si aggregò lasciando solo il feretro di Chiara diretto invece alla Pieve. Scoperto l’errore, sbandamento improvviso di folla, per correre dietro alla bara “giusta”» (da un’intervista di Giuseppina Manin) • «Tutto quello che sognavo l’ho avuto. Sono andato all’Accademia di Brera quando c’era il numero chiuso e ho avuto maestri inarrivabili, i grandi pittori che venivano per insegnare, mica come oggi. Oggi se ne fregano. Ho potuto iscrivermi contemporaneamente ad Architettura, e mentre ero lì, di colpo, ho capito che volevo fare altre cose, ho scoperto che la fabulazione era la mia vita. E, invece di scrivere, disegnavo, creavo il mio teatro totale. Tutto andava benissimo. A ventiquattro anni ero già capocomico» • «Milano nel dopoguerra era una fucina di cultura. C’erano registi come Zavattini e Risi che giravano qui, c’era Strehler che costruiva il Piccolo, c’erano scrittori. Arrivavano mostre che oggi ce le sogniamo, Caravaggio, Picasso... C’era voglia di sapere, conoscere. Per divertirci, io e Emilio Tadini che era mio amico anche se un po’ più giovane, andavamo a Parigi a studiare nei musei» • «Ho studiato architettura e sono uscito da certi schemi. La geometria è stata fondamentale per insegnarmi a scrivere. So montare uno spettacolo, dirigere una compagnia e per questo devi avere anche intelligenza di rapporti. So evitare conflitti, essere umanista anche nella vita. Se uno pensa solo a recitare la compagnia si sfascia dopo due mesi. Ho una bella resistenza, ma concepita molte volte con dolore e sofferenza. Il senso positivo dell’essere e dell’agire è una concezione che s’impara» • «Mi pagavano i pranzi se raccontavo le mie storie e io le raccontavo appassionandomici al punto che talvolta nemmeno mangiavo. Storie classiche l’Iliade, l’Odissea, la Divina Commedia, la Bibbia raccontate rompendo gli schemi, viste dal basso, secondo l’insegnamento delle storie che avevo sentito nella mia infanzia. La fabulazione ce l’ho nel sangue. Mia mamma ne raccontava tante, al punto che anni dopo scrisse un libro anche lei, Il paese delle rane tradotto anche all’estero. Poi c’erano i pescatori di Porto Valtravaglia sul Lago Maggiore: avevano bisogno di essere aiutati per pulire le reti, allora chiamavano noi ragazzi e per tenerci lì, sulle reti, ci riempivano la testa di storie. è a loro che devo la mia vita dopo» • «Nel ’51. Presentai alcune mie farse a Franco Parenti. Me le fece fare in radio. Da lì mi coinvolse in uno spettacolo con le mitiche sorelle Nava, che facevano il varietà, due di loro bellissime ma anche clown stupendi, non per niente venivano dal circo. Ho imparato molto da loro come attore» • «Alla base di tutto il mio teatro c’è soprattutto Ruzante. Da lì mi viene l’insegnamento di come costruire una storia: entrando nel fatto e facendo venir fuori la storia rimestando. Come dicevano i giullari, tirando la carne dal brodo all’ultimo. A Ruzante devo anche l’invenzione del gramelot di Mistero Buffo e degli altri testi almeno una decina che sono nati da lì» • «Dei miei testi, oltre settanta, mi piacciono quelli che entrano a gambe tese nell’attualità. Primo fra tutti, Morte accidentale di un anarchico che ha avuto oltre 700 rappresentazioni nel mondo, un record» • è sposato da oltre cinquant’anni con Franca Rame. «Quel Piccolo Teatro in cui nel 53 la compagnia Parenti-Fo-Durano mise in scena la rivista Il dito nell’occhio: Fo era uno spilungone di 27 anni, con un grosso naso, Rame a 24 anni era una specie di Marilyn Monroe ancora più alta e splendente, innamoratissima di quell’attore-autore che lei corteggiava implacabile sino a farsi sposare un anno dopo» (Natalia Aspesi) • «è stata una vita bella. Con tutti i casini, i dolori, le violenze, gli arresti, gli sgombri, la galera, le bombe nei teatri, la casa incendiata, nessuno che voleva più affittarcene una obbligandoci a lasciare Milano, la cosa tremenda e mai cancellata che Franca subì nel 73 (violenza carnale — ndr), i 40 processi, abbiamo vissuto tre volte più degli altri, a una velocità incredibile» • «I guai cominciarono subito quando uscimmo dai teatri usuali perché eravamo stufi di essere l’alka seltzer della borghesia, e volevamo un altro pubblico, che non venisse a sentirci solo per ridere ma per capire cosa stava succedendo in Italia. Era la fine degli anni Sessanta e c’era in giro una bell’aria di risveglio» • «Noi mandavano sempre il copione per il visto di censura, e magari gli andava bene: ma poi non era il testo, era la pantomina a farli arrabbiare. Capitava che mimando un personaggio innocuo io lo trasformassi in un Andreotti, capitava che in una tournée raccogliessi anche 260 denunce» • «Franca mi fa sudare le mani, quando le porgo un copione e so che tanto mi dirà “guarda che qui non va bene”. Anni fa mi arrabbiavo, una volta la sbattei contro il muro, gridandole “dammi tu allora la soluzione”, e lei me la diede subito, giusta. Ha il teatro nel Dna, perché i suoi stavano sul palcoscenico da quattro generazioni, ha intuito e mestiere, ha su di me un ascendente enorme» • « Canzonissima nel 63: non pensavano che due attori dicessero no fino al punto di lasciare la trasmissione. Ci costò 16 anni di assenza dalla tv. Sono anche stato arrestato. Nel 73 a Sassari perché non permisi alla polizia di entrare mentre recitavamo Guerra di popolo in Cile, uno spettacolo su un possibile golpe. Rimasi in carcere 24 ore, in isolamento. Feci in tempo a fare il mio quarto d’ora d’aria con gli altri detenuti alle finestre che mi gridavano “speriamo che non vai via subito”» • «Quando iniziai questo lavoro ero più un borghese illuminato che credeva nella necessità dell’onestà e della correttezza. Testi come Settimo ruba un po’ meno, un Mani pulite ante litteram, vengono fuori da quello spirito lì. Poi quando con Franca uscimmo dal teatro borghese a metà degli Settanta, rompendo con il Pci per le nostre posizioni, è diventato un impegno politico oltre che culturale» • «Il Nobel per la Letteratura l’ho preso nel 97: durante i quarant’anni e più di lavoro in teatro avevo già ricevuto numerosi premi, ma non avevo mai avuto la consapevolezza di ciò che concretamente significasse il Nobel. Fu un botto, un’esplosione, non soltanto per me, ma anche in Italia e in molti altri paesi. Della possibilità che lo vincessi se n’era già parlato una quindicina di anni prima e la notizia, all’epoca, era stata presa malissimo da vari autori tradizionali. Qualcuno disse che il fatto di dare il Nobel a uno che fa l’attore, cioè a una persona il cui linguaggio è soprattutto legato alla gestualità e alla vocalità (e non importa che io avessi anche scritto più di settanta testi teatrali che circolavano da tempo per il mondo), poteva essere solo una boutade. Invece io sapevo che era tutto vero. In seguito la commissione svedese che attribuiva il premio fece marcia indietro: c’era stata una spiata giornalistica, il mio nome era stato pubblicato con troppo anticipo e quindi per il regolamento della giuria dei Nobel io dovevo essere fatto fuori. Nel 97 si tornò a fare il mio nome. Già un paio di settimane prima del voto finale avevo saputo di essere fra i tre finalisti. Ma mi guardai bene dal parlarne con qualcuno. Il giorno in cui fu data la notizia ero in viaggio da Roma a Milano in autostrada insieme ad Ambra Angiolini, con cui stavo registrando la prima puntata di un programma per RaiTre. All’altezza di Firenze ci supera una macchina con a bordo un giornalista di Repubblica che sventola un cartello con su scritto: “Dario hai vinto il Nobel”. Vado a Milano e mi precipito nel teatro dov’è in scena Franca, che in quel periodo sta recitando con Albertazzi Il diavolo con le zinne. In città la reazione della gente è impressionante. Un tram si ferma e tutti i passeggeri scendono per farmi le congratulazioni. E il cortile di casa mia viene occupato da una banda di ragazzi che prende a suonare e a cantare facendo un baccano infernale e svegliando l’intero palazzo. In molti esultano per la mia vittoria. Ma ci sono anche reazioni feroci, invidie e risentimenti. Per esempio ci rimane male Mario Luzi, che aveva avuto l’assicurazione di aver ormai vinto il premio. Altri autori italiani, circondati dalle rispettive confraternite, si risentono moltissimo. Quanto alle reazioni istituzionali, in Italia il disinteresse fu totale. Ricevetti qualche lettera e telegramma da parte di alcuni politici, come D’Alema, ma solo messaggi inviati a livello personale. Non ci fu alcun invito ufficiale al Quirinale. Invece mi festeggiarono molto in altri paesi europei, come l’Inghilterra e la Germania, e soprattutto la Francia, dove venni celebrato su invito del ministero della Cultura. I francesi si dichiararono stupefatti dell’indifferenza dimostrata dal mio paese. In Italia mi fecero gran festa varie città, quando vi approdavo per recitare: Roma, Napoli, Genova, Palermo... Fu festa in quasi tutte le città salvo la mia, Milano, dove il Comune ignorò l’evento. D’altra parte i miei rapporti col Comune di Milano sono sempre stati pessimi. Rammento con felicità la cerimonia a Stoccolma. Fu solo arrivando in Svezia che colsi l’importanza di quel rituale secolare e scoprii che il Nobel per la Letteratura è il più importante di tutti. Mentre gli altri si possono dividere fra diversi studiosi, quello per la Letteratura assolutamente no. Nella cerimonia, molto teatrale, è il Nobel per la Letteratura che apre la sfilata e siede vicino alla regina. Io indossavo un frac che mi aveva fatto Gianfranco Ferré, e siccome me lo sentivo addosso come un costume di scena avevo il vantaggio di non sembrare un maÎtre d’hotel come i miei compagni di Nobel; tutt’al più potevo sembrare un cameriere. Nel proprio discorso all’Accademia, il vincitore del Nobel deve raccontare la propria storia. Io decisi non di leggere un testo, ma d’improvvisare. Naturalmente l’improvvisazione, in teatro, richiede sempre una ferrea preparazione. Anche in quel caso la mia fu un’improvvisazione rigorosa e programmata. Raccontai la mia vita: l’università mai terminata, l’accademia, le difficoltà... Ma volli farlo in modo “figurato”. Gli spettatori potevano seguire le varie tappe del racconto guardando una serie di disegni: d’accordo con gli organizzatori, avevo disegnato cinquanta tavole. Queste tavole, che raccontavano i punti salienti della mia storia, vennero stampate e distribuite a tutti i presenti in sala, più di cinquecento. Così mentre parlavo dicevo: “Andate a pagina tre e poi quattro e poi cinque”, e tutti ubbidivano divertiti. Col Nobel è aumentato l’interesse internazionale verso il mio lavoro. I miei testi erano già molto rappresentati in Europa e negli Stati Uniti, ma dal ’97 in poi sono stati messi in scena con successo anche in Giappone, in Cina, in Nuova Zelanda, in Medio Oriente e in Africa. Che cosa voglio di più?» (testo raccolto da Leonetta Bentivoglio) • «Sono sempre stato uno “sfangone”, come si dice a Milano. Lavorare mi distende ed è il modo più intenso di vivere e di riposarmi» (da un’intervista di Alain Elkann) • «Dalle mie parti si dice: se vai sulla montagna e sbonfi (cioè ti manca il fiato) non ti serve a niente. Ho imparato a non sbonfare» • Il caso di Gunther Grass, che nell’estate 2006 (quando stava per uscire un suo libro) ha raccontato di aver fatto parte delle SS, ha fatto riparlare dell’analoga esperienza di Dario Fo, che fu giovane fascista nella Repubblica di Salò: «è successo pressappoco nello stesso periodo in cui lui si era arruolato nelle Waffen-SS. Grass aveva 16 anni, io 17. Lui lo fece, a quanto racconta, per fuggire dalla famiglia e attratto dall’idea di andare a combattere negli U-Boot, io per non finire a lavorare in Germania, come succedeva a quelli che si rifiutavano di entrare nell’esercito. Un modo per defilarmi certo non glorioso, ma a quei tempi dalle mie parti, sul Lago Maggiore, con i gruppi partigiani allo sbando, fummo in molti a farlo. Una fuga seguita da tante altre: in poche settimane me la battei dalla contraerea, nei parà durai solo 40 giorni. E quindi mi imboscai sul serio, dentro un capanno nella brughiera, fino alla Liberazione. Una parentesi di cui non mi vanto, ma che non ho neanche mai tentato di nascondere» (da un’intervista a Giuseppina Manin).