Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
FINI Gianfranco Bologna 3 gennaio 1952. Politico. Di Alleanza nazionale. Ministro degli Esteri nel Berlusconi II (dal novembre 2004, prima era vicepremier)
FINI Gianfranco Bologna 3 gennaio 1952. Politico. Di Alleanza nazionale. Ministro degli Esteri nel Berlusconi II (dal novembre 2004, prima era vicepremier). «Non avevo il sogno della politica. Sono diventato leader per caso» • «Ha sviluppato un interesse per la politica alle scuole superiori, quando militava nel partito di destra Msi. Nel 77 è stato nominato segretario del gruppo giovanile, il Fronte della gioventù. Dopo essersi laureato in Pedagogia all’Università di Roma, ha cominciato la carriera professionale come giornalista, scrivendo per il quotidiano dell’Msi Secolo d’Italia fino all’83. Come segretario, ha guidato l’Msi fino allo scioglimento nel 94, quando ha fondato Alleanza nazionale, entrata a far parte della coalizione di centrodestra e fidata alleata del partito di Berlusconi Forza Italia. è sposato con Daniela e ha una figlia. I suoi hobby sono le immersioni subacquee, lo sci di fondo e la lettura. Non parla inglese» (da un rapporto della Cia) • «A diciassette anni entrò nel Movimento sociale italiano (Msi). Correva l’anno 69: l’anno dell’autunno caldo, del movimento studentesco, della strage di piazza Fontana; l’anno del Sessantotto, che qui da noi arrivò in ritardo rispetto al movimento dei figli dei fiori nato nei campus delle università americane e rispetto al maggio francese e tedesco. In quel sommovimento d’una intera generazione che mise in contestazione i partiti, gli apparati, il potere, il denaro, l’autorità del maschio sulla femmina, le figure genitoriali e giunse addirittura a teorizzare la necessità di spezzare il filo della memoria storica affinché il passato non potesse più condizionare il presente e il futuro fosse una pagina bianca nelle mani della gioventù creatrice, Gianfranco Fini scelse il suo posto in una nicchia politica che continuava a celebrare il fascismo, soprattutto quello di Salò, e con esso i miti della Roma imperiale, dell’uomo macho, del capo, della forza, della società gerarchica, della razza, della guerra perduta a causa del tradimento, della Patria vittima della plutocrazia giudaica, della democrazia corrotta e dell’America, ricettacolo di tante brutture d’una civiltà decadente e corrotta. Quella scelta inserì il giovane diciassettenne nel solco di una filiazione precisa: il mussolinismo, Salò, Almirante. E fu proprio Almirante a passargli, molti anni dopo, il bastone del comando con tutto il bagaglio mitologico del fascismo e il retaggio della sua tradizione» (Eugenio Scalfari) • «Andai per la prima volta in una sezione della Giovane Italia nel 68 per colpa di un film di John Wayne. Il film s’intitolava Berretti Verdi e sosteneva l’intervento americano nella guerra del Vietnam. L’estrema sinistra se la prese terribilmente con quel film e a Bologna organizzò dei picchetti di militanti per impedire l’accesso alle sale cinematografiche. Questo mi parve intollerabile. Io entrai sfidando il picchetto. Sono cresciuto con due nonni diversissimi. Il padre di mia madre era ferrarese, fascista, amico di Balbo, e morì nel 63. Il padre di mio padre è morto nel 70, era un comunista convinto e militante. Direi che mio padre invece era un uomo di centro» • «“La miglior dote di Fini”, riconosce Cirino Pomicino, “è il fiuto politico. Quanto alla competenza, è un altro discorso...”. Un tormentone, quello sulla sua presunta impreparazione, che ha radici antiche. Buttava male già ai tempi della quarta ginnasio al liceo bolognese Galvani, anno 66-67. Il ragazzo era educato, benvestito, puntuale. Studiava pure, ma alla fine in pagella si ritrovò cinque in italiano, cinque in latino, quattro in greco e quattro in francese; un carico che lo convinse a cambiare aria, ripartendo dalle magistrali. In seguito il futuro vicepremier si è rifatto con un 54 alla maturità e una laurea a pieni voti in Pedagogia, ma il sospetto che lui e lo studio non si prendessero ha continuato a tormentarlo. Ancora nel 90, al congresso del Msi a Rimini, inciampò su questo. Segretario dall’87 del Movimento sociale, criticò l’antagonista Pino Rauti per le “sue fumose idee che avrebbero dovuto muovere il mondo”, storpiando il titolo del saggio rautiano Le idee che muovono il mondo. Rauti lo lasciò finire, salì sul palco e gli rispose: “Vedi, Gianfranco, le persone si dividono in due categorie: quelle che scrivono i libri e quelle che si limitano a leggerne i titoli. Tu appartieni alla seconda categoria”. Di certo Fini non si sarà risentito per queste critiche: ci è abituato. Da una vita lo attaccano e lui impassibile tira dritto. Di solito a pizzicarlo sono i suoi, mentre dalla parte opposta raccoglie stima e rispetto. Un paradosso iniziato nel 71, quando approda alla sezione romana del Msi di via Basilio Bricci, quartiere Monteverde Vecchio. Ha 19 anni e arriva da Bologna, dov’è cresciuto col fratello Massimo, la mamma Danila e il padre Sergio, volontario nella X Mas, poi socialdemocratico, ora di An. Quanto a Gianfranco, si avvicina alla politica con motivazioni tutte particolari. “C’erano troppe bandiere rosse, per i miei gusti”, ha detto una volta. Con tali precedenti, più anonimi che no, Fini stenta a conquistarsi la simpatia dei camerati romani, soprattutto quelli di via Sommacampagna, dove comanda Teodoro Buontempo. Non basta il pedrigree del nonno Antonio, fascista alla marcia su Roma. La prassi quotidiana è fatta di botte e catene, e chi non l’accetta insospettisce, ancor più se impaginato in giacca e cravatta come lui. “Me lo ricordo benissimo, il Gianfranco di allora”, dice donna Assunta Stramandinoli, vedova Almirante: “Era così diverso dagli altri, così educato, mai distratto dalle ragazze. Per questo piacque a mio marito: lo vedeva lontano dallo stereotipo fascista. E soprattutto gli piaceva che abitasse a Roma, dove c’erano il partito e il potere”. Fu così che nel 77, quando dovette scegliere il nuovo segretario del Fronte, Almirante lo preferì al più brillante ma fiorentino Marco Tarchi. Un’elezione anomala, a dir poco. L’assemblea nazionale dei giovani aveva scelto come capo proprio Tarchi, con 49 voti su un totale di 99, e Fini si era piazzato quinto. Ma il risultato non piacque al numero uno del partito, il quale buttò a mare la volontà dei ragazzi e proclamò campione il suo pupillo. “Una decisione”, ricorda un testimone, “presa male dalla base. Quando Fini andò in visita alla federazione di Foggia, i camerati chiusero la porta e lo menarono. Come d’altronde fece un militante, chiamato il Pariolino, che gli diede la sua parte durante una manifestazione. Da allora ha iniziato a girare la battuta che in quegli anni Fini le ha prese, è vero, ma solo dai suoi”. D’altronde è lui il primo a sapere che il carisma non è il suo pezzo forte, e a meravigliarsi per l’ascesa a capo» (Riccardo Bocca) • «La cosa più curiosa è che la mia vita mi fece essere spesso l’uomo giusto al posto giusto. Non mi accontentavo di fare il politico e chiesi ad Almirante: ma poi cosa farò da grande? E lui mi chiese se mi sarebbe piaciuto fare il giornalista. Così lo feci: prima dodici mesi da abusivo al Secolo e quindi il praticantato. E sostenni l’esame da giornalista. Ci sentivamo dei reietti. Ci compiacevamo anche di esserlo. Ci sentivamo l’espressione di una élite politica» (da un’intervista di Alain Elkann) • «La domanda più insidiosa è se Gianfranco Fini è un miracolo o un miracolato. L’uomo che al congresso di Rimini contendeva a Pino Rauti la guida del Movimento sociale, con le due fazioni avverse che assistevano allo spoglio dei voti gridando “eja!” e “a noi!” a ogni voto scrutinato, il “fascista del 2000” pronto a giurare che i valori del fascismo erano assoluti, immodificabili, non storicizzabili, insomma eterni, abituato a festeggiare l’anniversario della marcia su Roma fra labari e braccia tese. Se farà un bilancio rigoroso ammetterà che dal cielo una mano santa gli ha consentito di commettere tutti gli errori possibili e di superarli come se niente fosse, con bellissimi quanto non dichiarati pentimenti. Leo Longanesi attribuì a Benito Mussolini la definizione teorica del fascismo: “Pragmatismo assoluto trapiantato in politica”. L’ex massimo statista del secolo sarebbe lieto di considerare Fini come un buon allievo. Da quando Silvio Berlusconi sdoganò il pupillo di Almirante, a Bologna, anno di grazia 93, dichiarando che per la carica di sindaco di Roma fra Rutelli e Fini avrebbe scelto quest’ultimo, dato che “condivide tutti i valori in cui credo”, l’ex capetto missino è riuscito in uno slalom formidabile: nel senso che ha abbattuto quasi tutti i paletti, ma è riuscito con infinito pragmatismo (per l’appunto) a evitare che gli rimbalzassero in faccia; si è opposto a tutte le modernizzazioni possibili, e in seguito si è proposto come il possibile modernizzatore. Si era aggrappato, con tutti i camerati missini, alla zattera del sistema proporzionale, convinto che il maggioritario, “voluto dalla Dc, dal Psi e dal Pds, dalla cupola della Confindustria e dal potere sindacale”, li avrebbe soffocati. In effetti se l’Msi fosse restato inchiodato dalla logica dell’arco costituzionale, sarebbe stato liquidato. E invece aveva incrociato il genio geometrico di Berlusconi, l’inventore delle due coalizioni simmetriche, al Nord il Polo delle libertà con la Lega, e nel resto d’Italia il Polo del Buongoverno con i missini. Così mentre Roberto Maroni sosteneva in campagna elettorale di avere stretto con Berlusconi un’alleanza in chiave antifascista, Fini poteva stringersi nelle spalle e aspettare con fiducia il futuro. è vero: aveva perso il Campidoglio contro Rutelli, ma era stato premiato dal voto popolare, quasi portato di peso dentro la democrazia. Ora si godeva l’ingresso nel Palazzo, dopo una segregazione di cinquant’anni. Gli intellettuali d’area, come Marcello Veneziani, ripetevano che la destra aveva imparato ad amare la libertà (non proprio la democrazia, la libertà). Altro che il vecchio slogan “tornate nelle fogne”: mentre non era ancora compiuta la trasformazione in Alleanza nazionale, i ministri post-missini potevano presentarsi in Europa. Magari per vedersi rifiutata la stretta di mano da un ministro belga; ma intanto occupavano posizioni, si facevano vedere, abituavano il continente alla propria presenza. E mentre il cosiddetto “ministro dell’Armonia” Tatarella attaccava populisticamente i poteri forti, mettendo nel mucchio la Fiat, la Banca d’Italia e la Corte costituzionale, Fini poteva godersi il piacere squisito dell’accesso al potere, la visita del tutto irrituale del cardinale Sodano, le passerelle rosse stese davanti ai nuovi arrivati. E poteva infischiarsene delle polemiche aperte da Umberto Bossi, “con la porcilaia fascista, mai!”, e anche del ribaltone, dei “puttani” che avevano tradito il mandato del popolo. Nelle fasi di passaggio, succede. Intanto, ecco la qualità dello slalom: da proporzionalista disperato è diventato un fondamentalista del maggioritario, “uninominale puro, a turno secco, all’inglese”, via la quota proporzionale (e perde il referendum perché non si accorge che Berlusconi ha virato). Da dipietrista assoluto, e da sostenitore fanatico dei magistrati del repulisti di Tangentopoli, dall’ammirazione mostrata per Francesco Saverio Borrelli, giunge a una sfumatura più politicista e cavillosa, fino a sostenere la tesi para-berlusconiana che il pool di Milano “colpì da un lato e chiuse gli occhi dall’altro”. Imprendibile Fini. Secondo alcuni, è l’uomo politico più moderno che ci sia in giro: anzi è oltre la modernità, è più in là, è nel pieno “post” culturale. Da questo punto di vista è ammirevole la strategia che portò all’assemblea fondativa di Alleanza nazionale, nel gennaio 1995, le cui tesi dovevano unire “autorità e libertà”. I numi tutelari del partito erano esibiti in un santuario di icone disparate: Schmitt, Pareto, Mosca, Michels, Sturzo, Rensi, Tilgher, Gentile, Spirito, Prezzolini, Papini, Marinetti, Soffici, Evola, D’Annunzio, Gramsci. Tombola. Già, Gramsci. E Sturzo. Inconsapevoli compagni di strada del “partito degli italiani”, il partito nemico delle faziosità, il partito più vicino alla nazione e al popolo. Era inutile che lo scettico Veneziani arricciasse il naso (“Fini ha eliminato il fascismo come fosse un calcolo renale”): ciò che importava è che nell’opinione pubblica passasse il messaggio che l’Msi si era ripulito, era abile e arruolato per la democrazia liberale, una colonna del bipolarismo. Con un solo esamino da Bignami, Fini superava trionfalmente il guado che invece aveva sempre tenuto fuori gioco il Pci, per il quale gli esami democratici non erano finiti mai. Acque davvero miracolose, quelle di Fiuggi. Del resto, chi può dire quale fosse e quale sia l’ideologia finiana? Un certo gollismo per rassicurare il desiderio di autorità del suo elettorato anziano; un po’ di chiracchismo per dare allure al populismo post-missino; il sostegno assicurato alle destre di tutto il mondo, dai repubblicani americani ai cristiano-democratici tedeschi. Sicché non dovette apparirgli del tutto incongrua l’invenzione dell’Elefantino alle elezioni europee del 99, l’alleanza con il liberale e maggioritarista Mario Segni; salvo poi smontarla subito, quella coalizione estemporanea, dopo il mezzo disastro nelle urne. Nella sua capacità di avvolgere di parole il suo eclettismo totale, ogni tanto Fini sbaglia qualcosa. Sbaglia ad esempio l’uscita contro i maestri gay, rivelando per un istante il vecchio volto omofobo del fascismo. Ma non sbaglia la lunga traversata che lo porta in Israele, prima facendosi intervistare dal quotidiano israeliano di sinistra Ha’aretz e chiedendo scusa per le leggi razziali del 38, e poi con la storica visita in cui rende omaggio allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah, e dichiara che la politica razziale del fascismo appartiene alla categoria del “male assoluto”. Si arrabbiano tutti, in Italia, gli ex camerati, ma dopo qualche giorno di sbandamento e di rutilanti dichiarazioni di Francesco Storace se ne va soltanto Alessandra Mussolini. Sono i miracoli di un eclettico. Di un pokerista. Di uno che è stato ammiratore e sodale di Jean-Marie Le Pen e che poi è diventato uno strenuo avversario del lepenismo. Che passa indenne attraverso il disastro nostalgico del congresso di An a Bologna nel 2002, quando dopo un esordio altamente istituzionale e convenzionale l’assemblea si tramuta in una fiera paesana di feticci fascisti. Un eclettico che dimentica prodigiosamente la politica missina, fieramente avversa all’Europa di Maastricht, e partecipa ai lavori della Convenzione fino a sfiorare il ruolo di padre fondatore» (Edmondo Berselli) • «A Bologna mi dicono che parlo romano. Però so che c’è un’inflessione più che un accento. L’emiliano ha una buona filosofia dello stare al mondo. La parodia dell’emiliano è Prodi» • Sulle voci relative a una sua relazione con Stefania Prestigiacomo, vedi PRESTIGIACOMO Stefania.