Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
FERRARA
Giuliano Roma 7 gennaio 1952. Giornalista. Fondatore e direttore del quotidiano Il Foglio.
«In fondo, per tutta la vita, F. non ha fatto che cercare di capire che cosa sia
l’innocenza e quanta vita ci voglia per perderla senza rinnegare un elemento
spurio di onestà che negli uomini, per il fatto di essere uomini, deve starsene appartato,
riservato, sennò si diventa sciaguratamente persone perbene».
VITA Figlio di Maurizio Ferrara (alto dirigente del Pci e a un certo punto anche
direttore dell’Unità) e di Marcella, prima segretaria di Togliatti e poi redattore capo di Rinascita
(la storia che il partito cercò vanamente di darla in sposa a Massimo Caprara è falsa: molto semplicemente Marcella e Caprara ebbero una storia in gioventù). Margherita De Bac ha scritto che alla nascita pesava sette chili. è stato battezzato per iniziativa di un parente (ma non ha fatto né cresima né comunione)
• «Genitori iscritti al partito comunista dal 42, partigiani combattenti senza
orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di
padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del
Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti
davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato. Vive a Mosca, dove
il padre è corrispondente dell’Unità, dal 58 al 61 […] Ritorno da Mosca, 1961. Scuola pubblica. Primi amori. Educazione sentimentale
piuttosto occidentale. Ma dalla storia di Garibaldi che gli raccontava il papà, versione allegramente frontista (Fronte vince, vota Garibaldi: cose del 1948),
il fanciullo trae forte spinta ideologica comunista-nazionale. Maturità classica. Primo viaggio a New York al seguito del fratello, aiuto regista di
Luca Ronconi nell’
Orlando Furioso in trasferta (è il novembre del 1970, “quando morì Charles de Gaulle” è il ricordo dell’adolescente che conosce tutto Dylan a memoria e ama i politici forti).
Iscrizione all’Università di Roma, facoltà di Filosofia, una bolgia ideologica. Polemiche da destra con il compianto
maestro Lucio Colletti, ancora un po’ trotzkista e sostenitore della democrazia dei Soviet […] Primi lavori di militante alla Stampa e Propaganda del Pci con Gian Carlo
Pajetta, che poi lo invia a Torino, dove arriva il 5 novembre del 1973, per “andare alla scuola della classe operaia e sottrarsi alle insidie della curia
romana” (parole di Pajetta). Resterà a Torino fino al settembre del 1982, gli esami di Filosofia sono fermi a undici
su venti. Ricoprirà a Torino questi incarichi. Giornalista senza bollini dell’ordine e senza praticantato presso la rivista Nuovasocietà, ideata da Diego Novelli e poi a lungo diretta e rimessa all’onor del mondo da Saverio Vertone (nel 75 Novelli diventa sindaco della città). Amicizia con Novelli, Vertone (vera amicizia, che continua nonostante le sue
follie politiche oneste e deliranti), e Adalberto Minucci,
supercapofunzionario. Altri incarichi. Capo dell’organizzazione politica del Pci alla Fiat Mirafiori (che porterà a duemila iscritti, perché è un buon attivista), poi responsabile della sezione problemi dello Stato (lotta
al terrorismo), della sezione culturale e del comitato cittadino
(organizzazione del partito in città). Il soggetto si caratterizza, tra l’altro, per una spiccata attitudine a parlare senza eufemismi, a criticare l’inviolabile tradizione operaista torinese e la politica della Camera del lavoro
che porterà gli operai torinesi a essere bastonati spietatamente da Cesare Romiti e dalla
famiglia Agnelli nel novembre del 1980 (
vedi anche ARISIO Luigi - ndr). Coordina riunioni politiche (ha imparato il torinese, che parla fluentemente)
nella saletta del comitato federale di Torino, sotto una grande riproduzione di
Guernica, con Luciano Violante e Gian Carlo Caselli: il tema è la lotta al terrorismo, Ferrara ci crede sul serio, è esperto di estremismi contigui al terrorismo, si muove in una logica
emergenzialista e non garantista, assume con molti altri seri rischi personali
per via della sua visibilità (pesa già centotrenta chili). Un suo articolo su Repubblica dell’epoca, dopo il varo del questionario anti terrorismo, si intitola “Diritto di delazione”. Sempre eccessivo, ma è con la delazione che le Br vengono sconfitte. Un anno prima della sconfitta
alla Fiat, nel 1979, i sindacati Fiom torinesi combattono duramente la
decisione di licenziare 61 dipendenti collegati al terrorismo, che miete
vittime quotidianamente in città, incendia le fabbriche e si collega con gli estremisti nel vivaio di Mirafiori,
dove cortei sbandati di operai pestano i capi e li costringono a marciare alla
testa della folla con la bandiera rossa. La linea di Ferrara contro un
sindacato che già allora segue Dario Fo e altri pazzerelloni girotondini antemarcia è: “Siete matti, queste cose fanno vergogna e sono anche la premessa di una
sconfitta del comunismo che piace a me” (si chiamava all’epoca eurocomunismo, si estrinsecava nella rivolta berlingueriana contro il
partito comunista sovietico che lavorava con Cossutta per farlo fuori, e
precipitava nell’assunto secondo cui i comunisti dovevano andare al governo, sacrificando ogni
forma di estremismo e avviandosi verso una socialdemocrazia europea con altre
forze politiche popolari, in primis la Dc, nel famoso “compromesso storico”, diciamo così bipartisan). Per affermare questa linea nel bastione operaista torinese Ferrara
fa volentieri compromessi politici: appoggia per qualche tempo la parola d’ordine dell’autoriduzione delle bollette elettriche, e quando alla Fiat tutto precipita con
i licenziamenti, si dà da fare ai picchetti della fabbrica e fa la sua parte lanciando uova (vecchio
vizio beffardo ed estremista) agli impiegati che vogliono entrare. Nel 1980, ma
dopo aver consumato la sconfitta con i suoi compagni e aver salvato “con le mani” Pierre Carniti da un linciaggio (vecchio vizio), Ferrara si dimette
spontaneamente dalla segreteria della Federazione e da capo del Comitato
cittadino, dopo aver partecipato a due vittorie elettorali del Pci ed essere
stato eletto (tredicesimo arrivato, secondo i piani, consigliere comunale). Il
comunismo non gli piace più tanto. Quello di Breznev gli fa un po’ schifo (avendo egli dato del “fascista” a Breznev in un editoriale di Nuovasocietà, un incazzatissimo Pajetta gli dice, in una stanza del mitico Hotel Ligure: “Queste cose per favore le scrivi alla morosa, non su un giornale del partito”). La sua intenzione dichiarata è tornare a Roma e finire gli studi universitari interrotti. Novelli lo recupera
abbisciandolo per il posto di capogruppo in Comune, perché F. può sempre servire (non è un servo?), e l’accordo (scandaloso per l’epoca) è che il funzionario, come chiede, si mette a metà tempo e metà stipendio, fa il capogruppo e riprende gli studi. Cosa che avviene sotto il
magistero di Gennaro Sasso, un liberale e un grande storico delle idee e
filosofo teoretico. Si arriva al dunque nel settembre dell’82. Il Ferrara a mezzo tempo e mezzo stipendio, che ha ripreso gli studi, si
arrabbia contro il maestro Luciano Berio e l’assessore alla cultura Giorgio Balmas. I due avevano organizzato un ridicolo “concerto per la pace” in Piazza San Carlo a Torino, con ridicole poesie di Edoardo Sanguineti che
piovevano dal cielo. Solo che quella sera si seppe che qualche migliaio di
palestinesi, nei campi profughi di Sabra e Chatila, erano stati ammazzati dai
cristiani sotto i riflettori di Tsahal o comunque con la sua connivenza. A
Ferrara, che non ha mai avuto posizioni filopalestinesi alla Mario Capanna e
soci (perché è un cacciatore professionale di eresie estremiste) sembra tuttavia normale
dedicare il concerto per la pace “ai martiri di Sabra e Chatila”. Di fronte al rifiuto del grande musicista e dell’assessore gnomo, s’incazza. Arringa in francese l’orchestra francese saltando sul palco a pochi minuti dall’inizio del concerto (vecchi amori, vecchi odi). Un impiegatuccio insolente dell’assessorato spettegola su di lui e lo insulta, la cosa gli viene riferita,
Ferrara scende dal palco e lo prende a schiaffi. Crisi politica. Tutta la
Torino perbene è contro Ferrara, con il Maestro Berio e con Balmas (anche il compianto Massimo
Mila, che però è per la pena di morte). Ferrara disprezza moralmente Diego Novelli per il modo
in cui si è comportato nell’occasione, cioè facendo lo gnorri, e lo critica sui giornali mentre fa le valigie (abitava in
una casa di ex ferrovieri a Borgo San Paolo, di proprietà di un gagliardo redattore sportivo dell’Unità, Nello Pacifico) per tornarsene a Roma e lasciare quello strano Pci dove ormai
era sempre in estrema minoranza: battaglia per il voto segreto e per le
correnti, critiche dure all’Unione Sovietica, animosità verso gli azionisti torinesi bobbieschi che si stavano impadronendo dell’anima del partito e del sindacato mentre i loro figli un po’ violentucci e contigui al terrorismo scorrazzavano per la città, sola battaglia vinta quella per la cittadinanza onoraria di Torino all’odiato Lech Walesa. Se ne va dapprincipio in silenzio e nel dolore, poiché sa che sta consumando un “tradimento” si appresta a farlo con onestà senza strepito. Ma un amico, Mario Missiroli, gli dice: “Ma scusa, non sei mica un ladro, perché te ne devi andare zitto zitto?”. Ferrara gli dà retta e da allora ascolta (quasi) sempre i consigli degli amici. Manda a quel
paese il Pci di Torino, con una dichiarazione pubblicata sull’Espresso di Livio Zanetti, e se ne va con le sue quattro carabattole da una città che ha amato. Colletti gli dirà: “La tua uscita è indecifrabile”. Mughini gli dirà: “Ma perché sei uscito da sinistra, tu che sei di destra?”. Ferrara non pensa che la vera moralità sia di destra o di sinistra, e si scandalizza della domanda» (Ferrara su se stesso in una biografia scritta per il Foglio)
• Uscito dal partito, studia Leo Strauss, impara il tedesco, campa facendo
traduzioni, gira con un cane lupo che si chiama Lupo, prende a collaborare all’Espresso, da dove il vecchio amico Ronchey lo spedisce al nuovo direttore del
Corriere della Sera, Piero Ostellino. Ottiene una lettera-contratto. Scrive su
Amendola, sul terrorismo, sull’esperienza torinese. Claudio Magris lo attacca, lui gli risponde. A un certo
punto Pansa, prendendo a pretesto l’uscita di un nuovo giornale, intitolato Reporter, pagato con soldi trovati da
Martelli e fatto dagli ex di Lotta continua (suoi vecchi amici-nemici), lo va a
intervistare e Ferrara gli risponde «che Craxi è in grado di guidare una sinistra socialdemocratica seria, che il Pci sbaglia
tutto, e che Fassino ‘dà ordini come un caporale e obbedisce come un soldato semplice”». Craxi, che non lo conosceva, lo manda a chiamare, diventa suo protettore, lo
piazza, su sua richiesta, a Reporter, dove Ferrara fa il giornalista a tempo
pieno (Reporter, Corriere, L’Europeo prima, Epoca poi)
• La carriera televisiva comincia nell’87, con Antonio Ghirelli, direttore del Tg2, che gli fa tenere una rubrica di
commento nel telegiornale della notte, ma soprattutto con Guglielmi, direttore
di Raitre, che gli affida Linea rovente, programma in cui Ferrara indossa la toga del giudice e processa Verdiglione,
Pannella e altri protagonisti della cronaca. Il programma non piace a Craxi («sembra una cosa alla Pecchioli») e dopo quattro mesi la Rai lo trasferisce sulla seconda rete per fare Il Testimone. Qui comincia a guadagnare parecchio (contratto da un miliardo), ma gli ascolti
sono notevolissimi (Ferrara racconta retroscena, caso Moro, caso Tortora, ecc.)
e per la stagione successiva lo chiama Berlusconi. Ferrara, che è già una star televisiva, chiede due miliardi e Berlusconi glieli dà. Seguono grandi successi con Radio Londra (subito dopo il tg delle 20, nello spazio cioè che su Raiuno sarà di Biagi) e successi assai minori con Il gatto (1989-90) • Nell’89 è europarlamentare del Psi: nega di essere stato il più assenteista tra gli eletti («ero nella media della delegazione italiana»). Nel 93, quando contro Craxi all’uscita dal Raphael vengono lanciate le monetine, realizza una straordinaria
intervista, a caldo, al segretario socialista, che viene mandata in onda senza
tagli (dura più di due ore). Nel 94 è ministro per i rapporti col Parlamento del governo Berlusconi, a cui fa anche
da consigliere politico e da ghost-writer
• «Il primo comunista a Palazzo Chigi sono stato io» • Nel 96 fonda Il Foglio, primo quotidiano italiano di quattro pagine. Soldi di
Veronica Berlusconi, di qualche amico (Zuncheddu) e del finanziamento pubblico
riservato alle cooperative che editano quotidiani di partito (per arrivare a
questi soldi due parlamentari amici, Marco Boato e Marcello Pera, fondano a
bella posta la Convenzione per la Giustizia di cui Il Foglio diventa organo
ufficiale). Grafica ispirata al Wall Street Journal, tendenzialmente senza
firme. Ferrara mette in calce ai suoi articoli un piccolo elefante stilizzato
procuratogli dal grafico Giovanni Angeli. Da questo momento avrà un nuovo nome d’arte, l’Elefantino. Il Foglio manifesta poco interesse per le notizie in quanto tali e
mostra invece una sensibilità acuta per i grandi temi politici, per le grandi questioni morali, esigendo una
scrittura di alto livello e un lettore in qualche modo già informato. è una scuola che, dopo molti anni in Italia, ha sfornato giovani giornalisti di
grande valore: Guia Soncini, Mattia Feltri, Pietrangelo Buttafuoco, Camillo
Langone, Mariarosa Mancuso, per citarne solo alcuni. Ha inventato la formula
della rubrica di due righe, ha dato la parola a Adriano Sofri, che ha difeso
con tutte le sue forze. Ha sostenuto, contro l’opinione generale, che a partire dall’11 settembre 2001 è in corso uno scontro tra il mondo islamico e quello occidentale, scontro dal
quale usciremo sconfitti se non difenderemo fino in fondo i valori su cui si
fonda la nostra civiltà, rinunciando a una tolleranza che in tempo di guerra è quasi tradimento. Per questa via, senza diventare credente («sono papista, non cattolico») si è accostato alla Chiesa e specialmente agli esponenti più ligi alla dottrina (per esempio monsignor Caffarra). Appoggio incondizionato a
Bush, sì alla guerra in Iraq, difesa a oltranza di Israele e delle sue ragioni. No agli
esperimenti con le cellule staminali, che Ferrara considera la porta d’ingresso all’eugenetica di marca nazista, la tecnica grazie alla quale tutti saremmo biondi,
con gli occhi azzurri o più probabilmente non-nati
• Il Foglio è un sostenitore di Berlusconi, ma scomodo. Un editoriale che lo rimproverava per
certe tentazioni censorie sulla Rai, cominciava così: «Cavaliere, non rompa il cazzo…» (lo aveva scritto Pietrangelo Buttafuoco) • Guerra senza quartiere a buonismi, frasi fatte, luoghi comuni, moralismi (a suo
dire sempre falsi), icone di ogni tipo, per esempio Benigni, che voleva portare
Dante e la Cultura al Festival di Sanremo e che Ferrara ridusse a patetica e
ansimante professoressa minacciando di andargli a tirare le uova contro
(Festival del 2002, Ferrara, atteso da tutto il mondo e annunciato da enormi
titoli dei giornali, non si fece vedere e si limitò a lanciare delicatamente sei uova contro il televisore di casa sua a beneficio
di alcuni amici giornalisti) o per esempio Baricco, che s’era lamentato di certe stroncature buttate lì come per caso da critici nemici e che si vide il giorno dopo sul Foglio ripreso
in ogni articolo, di qualunque cosa parlasse, con neretti allusivi e
ferocemente sfottenti. Questa vocazione al rifiuto preconcetto di verità bell’e pronte lo mette certe volte in imbarazzi gravi, sostenne fino a quindici
giorni primi del crac che la Parmalat era a posto, difese Moggi per l’antipatia invincibile verso i magistrati (e Guido Rossi, e Borrelli) e per
ribadire l’idea che non si può vivere senza sporcarsi le mani e che chi sostiene il contrario bara
• Durante lo scandalo Parmalat, è uscito fuori che Tanzi a un certo punto aveva dato 600 milioni al Foglio per
farlo uscire da un momento di difficoltà. Quando Feltri s’è messo a far titoloni, Ferrara ha fatto spallucce. La notizia era vera • «Se non fosse che la mentalità politica di Ferrara è quanto di più distante vi sia dall’azionismo o dal sussiego liberale e radicale degli anni Cinquanta, verrebbe la
tentazione di sostenere che la sua creatura, Il Foglio, è simile come nessun’altra a quel falansterio di cultura laica che fu Il Mondo di Pannunzio. Va bene
che, a differenza di Scalfari, l’Elefantino non scriverebbe mai La sera andavamo in via Veneto, perché i suoi ritrovi sono altri, come la tavola serale di Lino Jannuzzi da Fortunato
al Pantheon, con vasche di mozzarelle di bufala e carciofi alla romana. E che
uno degli idola che più gli piace smontare dal piedistallo è l’aristocraticheria azionista e il disprezzo di questa per l’Italia schizzata dal sugo delle vongole. Se nel suo celebre libro di memorie
laiche il fondatore della Repubblica scrisse che in quel magico club della Roma
acculturata e civile “eravamo tutti longilinei” e legatissimi all’obbligo del calzino lungo, Ferrara, antitesi completa del longilineo, nei suoi
sforzi di remare comunque controcorrente e di sguazzare felice nell’immondizia ha tentato perfino un elogio disperato del calzino corto; non solo,
ha promosso addirittura un attacco suicida contro “i disperati della pochette”, infischiandosene con allegria postproletaria che potessero essere identificati
con i detentori accertati del gusto e dell’eleganza, per esempio con i divini mondani Montezemolo e Della Valle, così affezionati, loro, al fazzoletto nel taschino. Il carattere di giornale club è assicurato soprattutto dal connettivo del Foglio. Politicista negli editoriali,
sempre incline a lanciare avvertimenti agli avversari e consigli agli amici,
Ferrara ha costellato le pagine di microappuntamenti quotidiani, rubriche
minime, e poi di shorts, tormentini giornalieri che fanno da contrappunto a un
gossip continuamente evocato e minuziosamente sorvegliato, e che attraggono il
clan con la forza irresistibile dell’ammiccamento ripetuto […] Con una miscela di goliardia e realismo politico, di cinismo domestico e
amplissime aperture internazionali: talvolta sembra di assistere a un ibrido
fra il Renzo Arbore cazzeggiatore e il vecchio rigore scolastico delle
Frattocchie, con sprazzi esibiti di Foreign Affairs. Un’altra riconoscibile cifra del quotidiano consiste, e ci mancherebbe, nell’esplicita valorizzazione del trash, mediante il ricorso a registri linguistici
romaneschi o genericamente dialettali, parlati, sarcastici, ricchi di voluto
malgarbo; alla lunga con probabili effetti nichilisti di diseducazione o di
noia, o perlomeno di assuefazione a questa forma di giornalismo cabaret, ma nel
frattempo con un coefficiente di divertimento condiviso e di complicità diffuse per il disincanto sparso a piene mani, la faziosità esibita e negata, e le strumentalizzazioni volentieri non dissimulate. Grazie a
questa chiave stilistica, Il Foglio è riuscito a circondarsi dell’aura del partito degli intelligenti, suscitando ovunque ammirazione e invidia,
in parte per il talento del suo regista e in parte per aver vinto
collettivamente la scommessa di puntare sul complesso di inferiorità di chi contempla un po’ ansioso dal di fuori. Insomma, lentamente ma non troppo, Giuliano Ferrara è diventato un capo partito» (Edmondo Berselli)
• Ha raccontato di essere stato al servizio della Cia a metà degli anni Ottanta e ben pagato per quello che raccontava. D’altra parte, a quanto pare, non raccontava niente di speciale perché, a suo dire, era privo di informazioni speciali. Solo spiegava all’agente americano le complicazioni di un paese difficile da capire come il
nostro, offriva insomma “chiavi di lettura” (il racconto, nel solito stile paradossalmente provocatorio, ha concentrato su
Ferrara un’altra valanga di improperi)
• Signore della televisione anche con Otto e mezzo, in onda su La7 dal lunedì al venerdì. Ferrara si fa sempre affiancare da un altro conduttore (Gad Lerner, Luca
Sofri, Barbara Palombelli e da tre stagioni Ritanna Armeni) di opinioni opposte
alle sue: «A quanto mi risulta, Ferrara non ha mai scritto un libro (ricordo soltanto una
sua lunga introduzione a Leo Strauss e un minuscolo pamphlet) ma sarebbe
ingenuo rimproverarglielo: l’assenza di opere è una manifestazione quasi snobistica della sua egemonia. La splendida sintassi
di cui, sera dopo sera, Ferrara dà prova con l’impermanenza
della parola orale nel suo salotto intellettual-televisivo, quella sintassi
sontuosa è la superiore cornice articolatoria in cui si inserisce ogni nostra affermazione
nella sfera del discorso pubblico. L’influenza enorme che il suo giornale senza lettori ha negli ambienti
professionali dei giornalisti è una prova di forza, non di debolezza: indica che oramai la sfera pubblica si è appiattita sull’unica superficie della comunicazione giornalistica, la densità del dibattito intellettuale è svaporata nelle correnti d’opinione degli influssi televisivi. La sua maestria di signore dei venti brilla
più che mai quando, di tanto in tanto, interrompe l’analisi dell’attualità sociopolitica per presentare la letteratura in prima serata. I suoi scrittori
prediletti servono sempre la strategia del populismo elitaristico: sono o
autori di romanzi commerciali di massa presentati come raffinati scrittori
(Faletti) o raffinati ideologi di impronta conservatrice-reazionaria lanciati
come autori di romanzi per le masse (Piperno, Buttafuoco). I nuovi
intellettuali egemoni sono lì, alla corte degli opinionisti di Ferrrara. Non importa a quale destra
professino di appartenere (cattolica, moderata, fascista etc.). Alla corte
televisiva di Ferrara appartengono tutti alla destra berlusconiana. Da questo
punto di vista, Giuliano Ferrara è l’ultimo critico letterario del Novecento. Prolunga la genìa di quei critici che non scrivevano romanzi ma erano più bravi dei loro scrittori perché costringevano i libri che elogiavano a produrre significati soltanto
concatenandosi al loro discorso di ordine superiore» (Antonio Scurati)
• Pesa 150 chili (ma è arrivato anche a 170-180): «Quando mi gridano da un auto in corsa “ciccione”, soffro come un vecchio cane artritico, mi viene voglia di morire o di uccidere
[...] Vivo male la mia obesità, l’obesità è una vera e propria malattia. Ne soffro molto anche se non lo do a vedere.
Combatto questa patologia con diete periodiche, comunque è dura» • Sposato con l’americana Anselma Dall’Olio, con la quale condusse nel 92 Lezioni d’amore, subito sospeso perché giudicato troppo audace da Gianni Letta • Adora i cani e i cavalli, ama la barca a vela, tifa moderatamente per la Roma
(prima era torinista: «ma adesso abito a Testaccio e a Testaccio è opportuno essere romanisti»). Gira con un bassotto di nome Giustina che lo accompagnò anche durante la campagna elettorale del Mugello contro Di Pietro (1997, era in
palio un seggio al Senato rimasto vacante: vinse Di Pietro) • è stato direttore di Panorama • Dice di essere diventato anticomunista dopo la lettura di Buio a mezzogiorno di Koestler. Recente innamoramento per Cervantes. Anni fa, col Foglio, ha fatto
campagna su Mordecai Richler e il suo La versione di Barney (Adelphi, 2000) • «Barney ha ragione. La vita non è fatta per essere ricordata, ma per essere dimenticata».