Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
FERRARA
Ciro Napoli 11 febbraio 1967. Calciatore. Con Giovanni Ferrari e Furino è il calciatore che ha vinto più scudetti nella storia: otto. Due col Napoli (87, 90), sei con la Juventus (95,
97, 98, 02, 03, 05), questi ultimi subjudice per le disavventure giudiziarie
che hanno coinvolto i bianconeri (processo doping e scandalo Moggi). Ha vinto
anche due coppe Italia (87 col Napoli, 95 con la Juve), la coppa Uefa 89
(Napoli), la Champions League 96 (Juve), l’Intercontinentale 96 (Juve) ecc. Con la Nazionale (49 presenze) è arrivato terzo ai Mondiali del 90, secondo agli Europei del 2000. 33° nella classifica del Pallone d’oro 97
• «Ha il volto scavato di un Pulcinella, sempre in bilico tra il lazzo e il pianto;
faccia napoletana, come Eduardo, come Troisi. Il suo nome, Ciro, è Napoli. Ciro, e basta. Il cognome, Ferrara, è quasi un di più, un soffio padano, che accarezza appena le vele di Mergellina, senza far danni» (Paolo Forcolin) • «Tradizioni del Sud: si dà il nome del nonno materno. Da piccolo non mi piaceva proprio per niente, però. Al punto che chiesi a mia mamma di cambiarlo» • «La partita d’esordio in serie A, 5 maggio 85: Napoli-Juve 0-0, incarna e riassume il suo
destino, la sua carriera. Prima il Napoli di Maradona, poi la Juve lippiana, in
cui si conferma difensore fra i più concreti e decisi, raramente sopra le righe. Il passaggio, nel 94, coincide con
l’avvento della cordata umbertina. L’eclettismo innato lo porta a essere protagonista sia come terzino che come
centrale, tanto nelle difese che marcano a uomo quanto in quelle disegnate a
zona. E poi il carattere: di ferro. Neppure un grave infortunio a 31 anni
(frattura composta di tibia e perone, il 1° febbraio 98 a Lecce) riesce a scalfirne la volontà» (La Stampa)
• «Venire alla Juve è stata la scelta decisiva della carriera. Sono cresciuto come professionista. A
Napoli restavo sempre il ragazzino, avevo 27 anni ed ero visto come il piccolo
del gruppo. A Torino ho messo a frutto le esperienze fatte in uno spogliatoio
di forti personalità come quello del Napoli. Di fenomeno ne ho visto uno: si chiamava Diego Armando
Maradona. Nemmeno l’eleganza di Zidane, il piacere di vederlo allenarsi con noi, ha mai raggiunto la
grandezza di Diego» (da un’intervista di Matteo Marani)
• Partita più importante «quella del primo scudetto, anche se entrai solo alla fine. Ero in panchina per
una distorsione alla caviglia, Bianchi a pochi minuti dal termine mi gridò: “Vai in campo. Sei un figlio di Napoli e questa gioia dev’essere anche tua”. Il giorno più bello della mia vita. Non dimentico neppure il 5 maggio 2002, quando
sorpassammo l’Inter all’ultima giornata. Quello scudetto mi ripagò dell’amarezza di quello perso due anni prima, nel diluvio di Perugia. Avevo pianto,
quel giorno: temevo di avere perso l’ultima occasione»
• «Con Diego eravamo addirittura vicini di casa. Bella fregatura: in cortile non
trovavo mai da parcheggiare, ci entravano solo le sue auto. Magari tornavo alle
nove di sera e trovavo lui che si allenava nella palestrina che si era fatto in
garage. “Perché non sei venuto con noi al campo?”, gli dicevo. Non rispondeva e continuava a correre sul tapis roulant. Quando lo
pregavamo di venire a Soccavo ad allenarsi era come portargli una medicina.
Sapevamo che col pallone tra i piedi diventava un’altra persona».