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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

FELTRI

Vittorio Bergamo 25 giugno 1943. Giornalista. Direttore di Libero. Ex direttore dell’Indipendente, del Giornale, dell’Europeo. Padre di Mattia. «Non mi interessa essere chiamato direttore, né avere autista, segretarie e compagnia. Mi piace l’aspetto sportivo della direzione. La voglio, per scrivere come mi pare» • «A Bergamo c’erano due giornali, uno degli industriali e uno della Curia. Vittorio Feltri finì in quello della Curia. Faceva il critico cinematografico. Erano i tempi di
Pietrino Bianchi, critico del Giorno, Giovanni Grazzini, del Corriere della
Sera, Alberico Sala, del Corriere d’Informazione. C’era già Morando Morandini alla Notte. Pietrino Bianchi una volta arrivò a Bergamo e disse a Feltri: “Come critico sei una schiappa. Ma sei un grande cronista”. Feltri ci rimase male. Ma Bianchi aveva visto giusto» (Claudio Sabelli Fioretti)
• «Vengo da una famiglia di modeste condizioni: quando avevo sette anni sono
rimasto orfano di padre e mi sono dovuto un po’ arrangiare» • Dopo l’Eco di Bergamo venne la Notte: «Nino Nutrizio mi ricevette. Ero molto intimorito. Nutrizio dava del “voi”. Disse: “L’Eco di Bergamo è il giornale più brutto del mondo. Se non vi hanno assunto nemmeno lì, ho il sospetto che siate cretino”. Mi sono sentito sprofondare. Nutrizio disse: “Vi assumo in prova per tre mesi. Se supererete la prova — e lo ritengo improbabile — sarete assunto. Altrimenti tornerete alle vostre occupazioni nell’interesse vostro e soprattutto nostro. Tornai a Bergamo in stato confusionale.
Alla vigilia di Natale una prostituta venne sgozzata mentre affettava un
panettone davanti alla bimbetta di due anni. Raccontai il delitto con passione,
le coltellate, il sangue, la bimbetta piangente. Alle due del pomeriggio corsi
in edicola, cercai la cronaca di Bergamo e mi accorsi che l’articolo non c’era. Salii in redazione distrutto, mi accasciai sulla scrivania con la testa fra
le mani. Poi vidi la prima pagina. La firma, in fondo, era la mia. Un brivido,
vidi il titolone, “Delitto di Natale”, avevo la prima pagina. Suonò il telefono, era Nutrizio: “Non siete cretino, siete assunto”»
• «Prima all’Europeo e poi all’Indipendente (che aveva rianimato, portato al galoppo e mollato prima che
stramazzasse come un cavallo drogato) si era fatto le ossa. Basti ricordare un
titolo della sobria campagna elettorale a favore di Marco Formentini: “Perfino Marx era meno rosso di Dalla Chiesa”. O il sottile filo-leghismo che si intravedeva in una pagina dell’aprile 93: “Bossi alla macchina della verità”. Catenaccio: “Il leader leghista è risultato essere il più sincero tra i segretari di partito sottoposti a un test che gli scienziati
giudicano infallibile e che si basa sugli incontrollabili movimenti del volto”. Il pezzo cominciava così: “C’è un politico sincero? Si, è Bossi”. Non che piaccia troppo alla destra italiana. Anzi. In questi anni ha deriso
Casini e Mastella come “prefiche” perché stavano sempre a lagnarsi di Berlusconi, ha battezzato Buttiglione “Rocco Tarocco”. Resta indimenticabile il dibattito con Giuliano Urbani, colpevole di “inciucismo” ai tempi in cui Maccanico tentava il governo di larghe intese: “Urbani? Mens nana in corpore nano”. E le punture di spillo a Gianfranco Fini? Cominciò: “è un ducetto felsineo”. Proseguì: “è un parlatore senza rivali che non ha mai detto niente”. Concluse: “In pratica non ha mai fatto un accidenti, eccetto frequenti vacanze dall’altra parte del mondo per riposarsi dalle fatiche dell’ozio”. Il fatto è che lui, nelle gabbie degli schieramenti, ci sta stretto: “Non sono né di destra né di sinistra. Detesto queste etichette. Mi sono sempre definito di destra per il
piacere di dare scandalo. Solo per questo, perché tutti erano di sinistra, perché nessuno aveva il coraggio di proclamarsi liberale, perché era vietato essere anticomunista. Ma io, se proprio devo definirmi, sono un
anarchico liberale”. Anarchico, soprattutto. è lì che son nati i guai. Si sa com’è il Cavaliere: adora essere adorato. Il suo sogno, raccontò una volta, sarebbe dirigere il Corriere, fare un giornalismo “senza toni accesi”, smetterla con un certo tipo di filosofia al quale dice d’esser stato costretto: “Se vuoi portar via lettori agli altri devi puntare sui più arrabbiati”. Cosa che gli riesce benissimo. Ma sempre un anarchico resta. Dopo la vittoria
del 27 marzo 94, si sottrae al trionfalismo con un editoriale sul tema: “Una certezza, molti dubbi”. Nell’estate del 96 riapre a quel Bossi odiato dalla destra come un traditore» (Gian Antonio Stella)
• «Ho fatto cose importanti. Ho fatto andare bene i giornali che dirigevo. L’Europeo l’ho preso a 85 mila copie e sono arrivato anche a 200 mila. Al Giornale ho
sostituito un mostro sacro del giornalismo come Montanelli, e ho raddoppiato le
vendite. Questo ha irritato. Non bastasse, sono riuscito a farmi pagare tanto,
molto più degli altri direttori» • «All’inizio sono ingessato perché non conosco ancora i lettori. Poi, quando li ho capiti, me li vedo davanti come
in un teatro e volo libero. Quello che mi dava fastidio al Giornale, anche se
facevo come volevo, era far parte di una scuderia» (da un’intervista di Giancarlo Perna) • «Quando lasciai il Giornale, Fedele Confalonieri mi commissionò un progetto per un tg diverso. Io lo elaborai assieme a Massimo Donelli, che
allora era condirettore di Panorama. Il progetto entusiasmò i capi di Mediaset. Confalonieri mi disse solo che serviva l’ok di Berlusconi e la scelta della rete. Da allora non ne ho più saputo nulla, salvo che c’era stata una sorta di sollevazione dei capi testata» (da un’intervista di Renzo De Rienzo)
• «Ho fatto campagne giuste, ma ho anche commesso un paio d’errori. Quando è uscito il rapporto Mitrokhin ho sparato il titolo “Giornalisti di Repubblica vergogna”. Io volevo solo accusarli di doppiopesismo perché quando uscirono le liste della P2 non andarono tanto per il sottile, mentre ora
diffondevano molto scetticismo su quelle liste del Kgb. Sarebbe stato meglio
che avessi espresso un’opinione, invece di lanciare un’invettiva»
• «Quando vado in tv sembro arrabbiato, gelido. Ma è perché sono abituato a essere attaccato e allora me ne sto come i gatti, pronto a
rispondere con una graffiata».