Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
FASSINO
Piero Avigliana (Torino) 7 ottobre 1949. Politico. Segretario dei Democratici di
sinistra (dal 2001). «Ho preso un partito tormentato, incerto di sé, che si chiedeva se avesse un futuro. Oggi guido un partito a cui calza
perfettamente la bella espressione che fu di Mitterrand: “Una grande forza tranquilla”» • La sua infanzia è stata di recente raccontata (ottobre 2005) dalla sua tata di allora, Elsa
Isnardi (nata nel 36), che ha chiesto al programma di Maria De Filippi C’è posta per te di incontrarlo. Fassino ha accettato. Da una cronaca della Stampa: «…così, quando s’è aperta la bustona e ha abbracciato la Elsa in lacrime, commosso pure lui, Elsa
Isnardi è diventata la tata più famosa d’Italia. Adesso che ha riabbracciato “il suo bel Pierino”, come lei chiama il leader dei Ds, è la donna più felice del mondo. Per lei, quello della tata, è il mestiere più bello che c’è. “A Piero volevo un bene da morire. Per me, era come mio figlio”. A casa Fassino, a Torino, la Elsa ha lavorato 7 anni, “da quando Pierino aveva sei anni e mezzo fino ai 14. Quanto abbiamo pianto,
tutti e due, quando ci siamo separati! Ma nel frattempo mi ero sposata, e mio
marito aveva trovato un bel posto, da custode. Ci davano anche la casa. E così li ho abbandonati. I signori Fassino lavoravano, e uscivano di casa presto. Io
prendevo servizio alle 8. La mattina spazzavo, facevo la spesa e preparavo il
pranzo. Ormai lo sa tutta Italia, che Piero andava matto per la mia insalata
russa. Il pomeriggio lui faceva i compiti, e poi si giocava a cavalluccio. Lui
era tifosissimo della Juve, e sovente guardava le partite alla televisione. La
sua è stata la prima tivù che avessi mai visto. A casa non l’avevo di certo. Dopo, Piero lo seguivo da lontano, guardandolo in televisione.
Una volta, con i miei figli gli abbiamo scritto una lettera vera, di carta, che
però non abbiamo avuto il coraggio di spedirgli. Non sapevamo nemmeno a che
indirizzo mandarla, a Roma”»
• Figlio unico di Eugenio, morto a 43 anni per un ictus cerebrale, e di Carla
Grisa. Nel 68 ha preso la maturità classica all’Istituto sociale dei padri gesuiti e si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza. Nel 69 è entrato nel Pci. Dall’83 all’87 è stato segretario della Federazione. Nell’87 è entrato nella segreteria nazionale. Nel 94 è stato eletto per la prima volta alla Camera dei deputati, rieletto nel 96, è stato sottosegretario agli Esteri nel governo Prodi, ministro del Commercio
estero nel governo D’Alema e ministro della Giustizia nel governo Amato. Candidato vicepremier con
Rutelli nel 2001, incassata la sconfitta è stato eletto segretario nazionale con lo slogan «O si cambia o si muore». Nel 2005 è stato rieletto segretario con oltre il 79 per cento dei voti
• «è un ottimo dirigente, il tipo indispensabile nel gioco di squadra, un mediano
alla Oriali, per citare una famosa canzone. Ma non sembra tipo da inventarsi
nuove strade né possiede il carisma personale di un D’Alema o di Veltroni, Cofferati, Bassolino» (Curzio Maltese nel 2001) • «Mio nonno è stato un fondatore del Partito socialista, mio padre è stato uno dei più noti comandanti partigiani. Respiro politica dalla nascita. La mia prima
tessera l’ho presa a 14 anni, iscrivendomi a Nuova Resistenza, un’associazione giovanile antifascista nata sull’onda della lotta a Tambroni. Ho avuto anche la fortuna di incontrare sulla mia
strada uomini importanti. Come Aventino Pace, un dirigente sindacale, capo del
movimento operaio torinese, uno di quelli che sequestrò Valletta quando ci fu l’attentato a Togliatti. Mi sono occupato di Fiat per 17 anni, e ho sempre seguito
la sua massima: “Quando in fabbrica c’è un problema o lo risolvi tu o lo risolve il padrone”. Insomma: mai tirarsi indietro e cercare sempre soluzioni» (da un’intervista di Claudio Sabelli Fioretti)
• «Mio padre era un capo partigiano socialista e un leader naturale. Mi ha fatto
respirare il clima dell’epoca perché dopo la guerra aveva continuato a far politica nell’Anpi. Anche il suo lavoro di concessionario dell’Agipgas in Piemonte gli venne da quell’ambiente. Enrico Mattei, che aveva conosciuto nella Resistenza, lo chiamò a lavorare insieme ad altri ex partigiani» (da un’intervista di Stefania Rossini) • «Mia madre, donna bellissima, alta, esile, bionda» • «Ho fatto le scuole elementari alla Michele Coppino. Medie e liceo dai gesuiti.
All’università, prima Giurisprudenza e poi Scienze politiche. Ho fatto il movimento
studentesco. Ma con la cravatta, non con l’eskimo. Qualche volta mi hanno perfino scambiato per un poliziotto» • «Mi iscrissi al partito all’indomani della sua decisione di condannare l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Cioè quando il Pci disse apertamente che la libertà veniva prima di ogni altra cosa» • «Il ragazzo se ne stava appoggiato contro la porta, impressionantemente alto e
magro. Era andato dai dirigenti del Pci torinese (Adalberto Minucci, Lorenzo
Gianotti e Diego Novelli) per ringraziarli della loro presenza ai funerali di
suo padre, Eugenio, partigiano non comunista. E fu in quell’occasione che chiese di iscriversi al Pci. Minucci gli diede l’indirizzo del segretario della sezione del suo quartiere, che ne fu entusiasta: “Il ragazzo è bravissimo, sarà molto utile al partito”. Preveggente? Lo dirà la storia. Fatto sta che a distanza di più di 30 anni, Piero Fassino di quel partito che una volta si chiamava Pci è diventato segretario. Grazie al suo carattere puntiglioso, dice chi lo ha
conosciuto, e alla sua volontà di ferro. Già a Torino il ragazzo alto aveva bruciato le tappe: dopo un anno era già segretario della Fgci provinciale. Gianotti, all’epoca segretario del Pci torinese, se lo ricorda determinato, sempre in giro per
sezioni. E ambizioso. Quanto bastava per puntare alla sua poltrona (a quei
tempi incarico di rilievo, in Italia)» (Agostino Gramigna)
• «L’avvocato Agnelli volle conoscermi appena venni eletto nell’83. Fu una lunga chiacchierata, molto simpatica. Mi disse: “Senta Fassino, io capisco tutto. A Torino ci sono tanti operai e voi siete il
partito che li rappresenta. Ci scontriamo, ci mettiamo d’accordo, capisco tutto: comunista Torino, comunista Milano, ci sono le
fabbriche. Ma una cosa non capisco: perché ci sono i comunisti a Roma e a Napoli?”» • «Può darsi che dipenda dalle origini saldamente piemontesi, se Piero Fassino
somiglia più a un segretario del Pci che a un dirigente dei Ds. Secondo una leggenda
consolidatasi nel corso degli anni fra i corridoi silenziosi di Botteghe
Oscure, infatti, il segretario del partito proveniva sempre dall’ex Regno di Sardegna: così fu con Gramsci, con Togliatti, con Longo e con Berlinguer, sardi il primo e l’ultimo e piemontesi gli altri due. Natta era ligure, e dunque rientrava nei
confini dell’ex Regno. Quando al soglio salì Occhetto, che politicamente era nato a Milano, s’invocò la sua nascita anagrafica, a Torino: ma i puristi storsero il naso. E Occhetto
fece la svolta della Bolognina. Con D’Alema e Veltroni, entrambi nati a Roma, la leggenda si era definitivamente
dissolta. Il Pci, del resto, non c’era più. Piero Fassino è diventato segretario della Quercia nel suo momento probabilmente peggiore, alla
fine del 2001, dopo che gli antagonisti dell’ultimo decennio, D’Alema e Veltroni, spesso impegnati in una lotta per linee interne cruenta quanto
silenziosa, erano finiti il primo nel limbo della Fondazione Italianieuropei, e
il secondo in Campidoglio. I Ds quasi non esistevano più, divisi per bande e gruppi in confusa guerriglia reciproca — e Berlusconi era saldamente insediato a palazzo Chigi. Le invettive di Nanni
Moretti (“Con questi dirigenti — disse indicando proprio Fassino — non vinceremo mai”), l’esplosione del movimento dei Girotondi, l’ascesa che pareva irresistibile della stella di Cofferati, l’ammutinamento dell’Unità di Furio Colombo e il movimentismo esasperato della Cgil di Epifani sembravano
preludere ad un definitivo inabissamento della Quercia, e certo alla fine
prematura della leadership fassiniana. Così non è stato, e oggi Cofferati è un tranquillo sindaco di Bologna, l’Unità ha cambiato direttore e dei Girotondi s’è persa ogni traccia» (Fabrizio Rondolino)
• «Da segretario della federazione torinese arrivava prestissimo per organizzare
addirittura i turni delle pulizie, e si addormentava tardissimo dopo qualche
pagina delle opere di Togliatti. Nella capitale subalpina il “responsabile fabbriche” Fassino impersonava alla perfezione ciò che il sociologo Giuseppe Bonazzi chiamò il “metaregolatore”: vale a dire una funzione in grado di sollevare il conflitto e di moderarlo (e
la possibilità di usare le cellule comuniste di fabbrica come un freno alle eventuali fughe in
avanti del sindacato). Lotta e mediazione, durezza e confronto, ma in ogni caso
una cultura, un’abitudine, una pratica negoziale formatasi nel cuore del capitalismo
industriale, con l’occhio rivolto al “blocco dei produttori”, cioè a quel rapporto di conflitto e integrazione nell’impresa che segnano il Pci torinese dai tempi di Gramsci. Per lui dev’essere una tragedia il disastro dell’“ultima lotta”, quella dell’80, rimasta nella memoria della sinistra per l’icona di una sconfitta, Enrico Berlinguer ai cancelli della Fiat. “L’intera vicenda — commenterà Fassino — mette in evidenza la radicata persistenza nel movimento operaio di una dualità di fondo: il coesistere di un’anima ‘antagonista’ e di un’anima ‘contrattualista’”. è un punto di svolta. E se non è senno di poi, questo giudizio rappresenta la matrice della visione riformista
fassiniana. Il resto è generalmente colore: la magrezza su cui è il primo a scherzare, citando Teo Teocoli: “Nato di 4 chili, sei mesi dopo era già di 2”; l’amore per il calcio e per la Juventus, Mozart, e il jazz, il cinema e il teatro
di Pirandello e Brecht, il carattere irascibile, la buona cucina e l’abilità di danzatore (Fassino è l’ultimo italiano che può dire “la mia passione sono i music-hall”, come se ci fossero ancora i music-hall) […] A rileggere
Per passione, la sua autobiografia politica pubblicata nel 2003, si può rimanere sorpresi per come tratta Craxi e il Psi, anticipando praticamente
tutti i revisionismi che gli vengono chiesti oggi. Non condivide il giudizio “largamente diffuso nel Pci, secondo cui Craxi è il nostro peggior nemico”, e neanche l’esecrazione lanciata da Berlinguer verso Bettino “pericolo per la democrazia”. A suo parere Craxi ha posto le domande giuste, anche se spesso ha dato le
risposte sbagliate. Sembra quasi di avvertire la sua emozione allorché Craxi a Berlino, nel 92, dopo scontri, accuse e una trattativa infine convulsa,
dà il via libera all’ingresso del Pds occhettiano nell’Internazionale socialista: “Sono circondato da decine di mani che si congratulano. Mi alzo e attraverso
tutta la sala fino a raggiungere Craxi. Ci stringiamo la mano, mentre il
congresso nuovamente applaude”. Non sarà il sentimento di un istante a sciogliere i nodi di una storia, tutta davvero
novecentesca, in cui le sinistre si sono fatte la guerra “perché ognuna pretendeva di essere la sinistra esclusiva”. Ma intanto si può capire che Fassino conosce il “dramma del riformista”, questa cognizione del dolore politico che assale i rivoluzionari più moderati e i riformisti più radicali quando devono fare i conti con le alleanze, gli avversari, gli amici,
i compagni, i compromessi, perfino il governo, mentre qualcun altro può sfoggiare la sua purezza oltranzista […] Fassino il riformista, Fassino il socialdemocratico, colui che vuole
trasportare nel nuovo millennio il pensiero forte del Secolo breve, l’unico leader che nel centrosinistra rivendica (e su cui talvolta grava) una
tradizione politica certa, subisce continuamente la minaccia di vedersi
oscurato dalle malcerte, quindi modernissime, identità altrui» (Edmondo Berselli)
• «Tanto D’Alema quanto Veltroni usarono il partito come un taxi, e glielo affidarono
quando sembrava ormai pronto alla rottamazione» (Francesco Verderami) • «Fa sempre una cosa in più, invece di farne una in meno. Così la sua scorta tampona un’auto a Varese, prima delle elezioni. Oppure lui fa un girotondo attorno alla
Rai, ma in contemporanea il suo alias va in onda a TeleCamere con Anna La Rosa.
Cerca di entrare nel corteo no-global nel modo sbagliato, nel posto sbagliato,
nel momento sbagliato. S’impiccia con i pulsanti e sbaglia a votare la Cirami. Rincorre sulle scale
Bertinotti perché ha dimenticato di fargli vedere quel libro sul musical. E sempre rischia in
definitiva di diventare, più di un tiranno, un personaggio da cartoni animati. Simpatico suo malgrado: nel
tempo degli spettacoli politici e del loro primato sulla realtà» (Filippo Ceccarelli)
• «Io sono nato a Torino e sono sabaudo. Sono alto e magro e ho questa immagine un
po’ austera, un po’ calvinista, tipica di chi è nato, vissuto e cresciuto in una città che è forgiata dalla cultura e dall’etica del lavoro. Una città fatta di understatement, dove nessuno deve mai superare un certo limite perché sennò viene considerato stravagante» • «C’è chi si sfoga mangiando, chi bevendo, io lo faccio con gli scatti d’ira. Passata la tempesta, tornano però presto a volar gli uccelli e si rafforza il rapporto umano. Ci sono segretarie
che mi telefonano a distanza di anni, ogni Natale» • «Erano i tempi del femminismo e io ero segretario della Federazione di Torino.
Entrai in una riunione e vidi Livia Turco con una gonna marrone e un golf blu,
gli zoccoli e i calzettoni a strisce orizzontali che andavano all’epoca. L’insieme era sconcertante. La chiamai da parte insieme a un’amica conciata allo stesso modo, dissi: “Ragazze, questi sono i soldi per due biglietti per Parigi. Andate e guardate per
una settimana come si vestono le donne”»
• Ha preso la laurea quando era già un politico affermato: «Ho voluto portare a compimento un percorso interrotto nel 71, con molti esami già fatti. Fa parte della mia etica non lasciare una cosa a metà». Ha fatto la tesi su se stesso: «La lotta operaia della Fiat dell’80 a cui anch’io ho partecipato. Ma quello è stato un passaggio cruciale nella storia del movimento operaio: la più grande lotta e anche la più grande sconfitta del dopoguerra. Ho voluto che quell’esperienza non andasse smarrita perché là dentro c’erano delle cose che ci possono essere utili ancora oggi»
• Recentemente s’è detto «credente»: «Sono un credente, ma proprio perché si tratta di un fatto assolutamente privato, non ne ho mai dato manifestazione
pubblica, perché sarebbe del tutto improprio per il rispetto che ho della fede e delle mie
convinzioni» • «Io il Papa l’ho visto quattro volte, forse più di altri politici italiani, ma le foto le tengo per ricordo personale» • Sulla sua magrezza: «Sono anni che mi sento fare domande sulla mia magrezza. Cerchiamo di chiarire
questa cosa. Non è che non mangio, sono lo stesso peso da trent’anni. Ho un buon metabolismo e mi fa bene fare quello che faccio. Forse l’affetto della gente dipende proprio dalla mia magrezza, dal fatto che sembro una
persona tormentata» • è sposato (dal 92) con la collega Anna Serafini: «Si sono innamorati nel ristorante di un grattacielo a Santiago del Cile, dove
erano in trasferta di lavoro. Pare proprio che galeotto fu un valzer. Vivono al
centro di Roma. Lui in casa collabora molto, sistemando con grande meticolosità piatti e bicchieri nella lavastoviglie» (Panorama) • Prima della Serafini aveva sposato la giornalista Marina Cassi. Non ha figli: «Vorrei aver avuto un figlio maschio a cui trasmettere amore ed esperienza» • Porta sempre in tasca un Pulcinella che stringe un tredici, portafortuna che
gli venne regalato a Napoli «e che da allora mi accompagna sempre» • «Ho sacrificato me stesso alla funzione che ricoprivo. E non so più se sia stato giusto».