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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

ELKANN

Lapo. New York (Stati Uniti) 7 ottobre 1977. Secondo figlio di Margherita Agnelli e
Alain Elkann. Ex responsabile sviluppo immagine di tutti i marchi del gruppo
Fiat, si è fatto le ossa nel marketing: prima alla Ferrari, poi alla Maserati, infine nell’ufficio relazioni esterne della casa madre. Carriera interrotta dall’overdose di cocaina (con contorno di festini transessuali) di cui fu vittima nel
2005 • «Lapo non è solo il giovane erede che somiglia più di ogni altro nipote all’Avvocato Agnelli e che indossa i vecchi vestiti del nonno con voluto manierismo,
capace di parlare a lungo mischiando cuore e affari, radici e ideali, mercato e
lutti, calcio e politica, ma anche e soprattutto un giovane del suo tempo che
poi vuole semplicemente vivere la vita di tutti gli altri, che aveva fatto “il servizio militare da soldato semplice”, l’operaio alla Piaggio a 17 anni e “il portaborse a Kissinger”, come annotava quasi con orgoglio a chi gli ricordava i suoi privilegi e il suo
cognome. Un ragazzo dei nostri tempi costretto a correre ad altissima velocità, più forte dei suoi anni, più veloce degli altri. Suo fratello
John ha potuto ritagliarsi una collocazione understatement nel nuovo
organigramma ridisegnato dopo la morte di Umberto. Lui non aveva potuto. Doveva
esibirsi, per il ruolo che rappresentava, e per la rincorsa a cui lo
costringeva il buco nero dal quale stava per uscire la Casa Madre. Chi lo ha
frequentato, come Massimo Giletti, lo descrive come una persona di “una dolcezza grandissima”. E chi l’ha intervistato gli ha sempre riconosciuto questa capacità di azzerare le regole, di rompere le barriere, e avvicinare i ruoli fino a
scioglierli insieme. In questa corsa, per vincere la sua scommessa, lui ha
messo in campo il suo talento, lo stesso che in fondo rivedeva nel suo idolo
del pallone più apprezzato, Antonio Cassano: “Mi piace, perché è uno che viene dal niente. Difficile da gestire, ma bellissimo da guardare”. Genio e sregolatezza. Così, dentro a questa cornice, in un giro sempre più veloce, Lapo ha collezionato un successo dietro l’altro, e sarà bene non dimenticarlo adesso, dalle felpe con il marchio Fiat che hanno ridato
orgoglio a un simbolo spento, alla saga di spot irriverenti con la squadra
giamaicana di bob, fino alla riuscitissima pubblicità della Punto che corre libera su una strada deserta, inseguendo la canzone di
Vasco Rossi, “e va bene così, senza parole”. Ha lanciato frasi che sono diventate cult, come quella della “macchina figa”, ha promosso idee e progetti anche rivoluzionari come quello della “Punto unica, con la bandiera sul tetto o la foto della fidanzata sulla portiera”, in mezzo a qualche congiuntivo sbagliato» (Pierangelo Sapegno)
• «Nome indovinato, vero? Facile da ricordare e quindi competitivo. Non per niente
lo scelsero mio padre e mia madre, uno scrittore che sa trattare con le parole
e una pittrice che pensa per immagini. Chiamarmi Lapo mi consente di omettere
il cognome. I grandi cognomi non sempre sono una comodità. C’è il rischio di rimanerci ingabbiati per sempre. Io cerco rispetto e
apprezzamento per il lavoro che faccio e per i risultati che porto. è lì che voglio esprimere le cose che ho nella testa, nel cuore e nella pancia.
Testa è ragione. Cuore è passione. Pancia è feeling, capacità di sentire subito le cose a pelle. Sarei uno sciocco a non riconoscere la
fortuna che ho avuto. Ma voglio spiegarmi con una metafora. Il caso, che
distribuisce le carte per il poker della vita, a me ha dato una scala reale. Ma
se non la so giocare, posso perder tutto alle prime mani. Per questo ho
cominciato a smazzare molto presto. Lavorando alla catena di montaggio della
Piaggio a 17 anni, facendomi tutto il servizio militare da soldato semplice e
poi affiancando Henry Kissinger praticamente come un portaborse. Sono tutte
esperienze che uno tiene nel proprio giardino segreto, ma che si rivelano
strumenti utili per qualsiasi lavoro futuro. Otto ore al giorno alla linea sul
Typhoon 50 per due mesi estivi. Montavo ammortizzatore e cavalletto. Non ho la
presunzione di aver provato la vita operaia, ma il lavoro in linea sì, quello oggi so cos’è. è stata un’esperienza dura e formativa, con gente tosta, gente di Toscana. Portavo i
capelli alla Jackson Five e dicevo di avere un padre operaio alla Peugeot. Ci
hanno creduto finché non mi hanno visto in tv allo stadio di Torino, inquadrato accanto a mio nonno.
Ma ero già via, non ho mai saputo come l’hanno presa. Guadagnavo poco più di un milione al mese, messo via come una reliquia. Di quei soldi non ho mai
toccato una lira. Hanno più valore di altri. Io non sono ricco. Venire da una famiglia ricca non vuol dire
essere ricco. Lo sarò il giorno in cui avrò molti soldi ottenuti con il mio lavoro. Del resto, non ho mai chiesto niente a
nessuno. Quando ho voluto il primo motorino, ho venduto i miei vestiti più belli ai compagni di liceo a Parigi. Conosco l’obiezione: i vestiti te li comprava la mamma. Va bene, però io me ne privavo. Mio nonno per me non era l’Avvocato. Era un signore affettuoso con cui mangiare hot dog per le strade a New
York, visitare i musei, fare lunghe passeggiate chiacchierando. Quando ha
cominciato a star male, ho lasciato l’America per rimanergli accanto. Mio padre è nato da un francese ebreo ashkenazita e da un’italiana ebrea sefardita. Mia madre è diventata cristiana ortodossa. Io sono un po’ cattolico e un po’ ebreo. Prego lo stesso Dio dentro una sinagoga e dentro una chiesa. Per quanto
riguarda gli ambienti, invece, mi trovo decisamente più a mio agio con gli ebrei. Gli ebrei sono un team, una squadra. Insieme sanno
far girare le cose. L’ho capito e ne ho fatto tesoro nel corso del mio anno e mezzo a fianco di
Kissinger. Kissinger è un uomo che non ha bisogno di nessuno. “Come diventargli utile?”, mi sono chiesto e ho avuto l’idea di insegnargli a usare il computer per 30 minuti ogni mattina. Così ho conquistato il suo rispetto e sono entrato nella sua squadra. C’era appena stato l’11 settembre e ho invidiato agli americani la forza di valori a noi sconosciuti,
come l’attaccamento alla bandiera. Quando ho fatto il giuramento da alpino, con il
fucile e il cappello piumato, ero profondamente commosso. E così mio padre e mio fratello che assistevano alla cerimonia. La bandiera è appartenenza, è coesione con il proprio Paese. Io amo l’Italia e amo la Fiat. Sa qual è la cosa che mi fa veramente rabbia? I nostri politici che sfoggiano auto
straniere. Quando la Renault era in crisi, tutti i politici francesi si
facevano vedere al volante dell’Avantime. La Fiat ha fatto del bene al Paese e continuerà a farlo, ma è insopportabile vedere gente che ha cariche istituzionali a bordo di un’Audi o di una Bmw. Il presidente Ciampi, quando è andato ad Atene, ha fatto trasportare via mare una Maserati quattro porte pur
di mostrarsi su un’auto nazionale» (da un’intervista di Stefania Rossini)
• Cronologia dell’incidente occorso a Lapo Elkann la notte tra il 10 e l’11 ottobre 2005: «Il travestito brasiliano Patrizia ha raccontato di aver visto arrivare Lapo
Elkann alle 23 da solo. Lo ha fatto salire e lui ha chiesto altra compagnia.
Patrizia ha chiamato Cinzia e Tani, altri due travestiti perché sapeva che erano poco distanti. Dice di essersi astenuta dall’uso della cocaina. Gli altri due travestiti se ne sono andati alle 4.30 del
mattino. Lapo era stanco, ha chiesto se poteva fermarsi a dormire. Ha messo la
sveglia al suo telefono cellulare — “7.30, credo” — perché al mattino doveva andare in ufficio. Ma non l’ha sentita, o non ha funzionato. Quando Patrizia si è alzata, lo ha trovato sveglio, ma incapace di muoversi, rantolante e ha
chiamato (“subito”, dice) il 118 (sunto di un articolo di Marco Imarisio apparso sul Foglio dei
Fogli del 17 ottobre 2005)», «Lapo Elkann sta bene, si è dato dell’imbecille, non vuole curarsi in Svizzera, chiede di tornare quanto prima a
lavorare» (Vanity Fair, 25 ottobre). «A sei mesi dal coma per cocaina, Lapo Elkann è riapparso in via Chiabrera a Torino, convocato per la riunione dell’Accomandita degli Agnelli (una cinquantina di persone). Capelli lunghi, completo
azzurro, è sceso dalla sua Alfa 156 Sportwagen e ha salutato i cronisti con un bel
sorriso: “Ciao, ho piacere di vedervi, come state?”. Poi è sparito senza rispondere a nessuna domanda. Qualche giornale fa capire che l’incidente di sei mesi fa potrebbe essere stato favorito da poliziotti della
Digos amici di Moggi e della triade juventina, che Lapo aveva messo sotto
accusa (“Moggi-Giraudo-Bettega mi ricordano Caino e Babele” e “mi auguro di vedere uno Smile sulla maglietta della Juve”, attacchi a cui Giraudo aveva risposto indignato: “Senza smile la Juve ha disputato 16 finali di coppe, vincendone 8 e ha
conquistato due palloni d’oro e tre tornei di Viareggio”). Certo quello di Lapo, per i servizi di sicurezza della Fiat, è stato un flop davvero difficile da capire» (Vanity Fair, 3 giugno 2006)
• Ha un cane San Bernardo di nome Comodino.