Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
DE BENEDETTI
Carlo Torino 14 novembre 1934. Imprenditore • Figlio di Rodolfo, imprenditore. Esilio in Svizzera nel 43 per sfuggire alla
persecuzione antisemita (mentre due suoi cuginetti furono catturati a poca
distanza dal confine). Laurea in Ingegneria elettrotecnica al Politecnico di
Torino (1956), lavora in azienda col padre (Compagnia italiana tubi metallici
flessibili, poi Gilardini), ne prende la guida nel 68, poi nel 76 lo chiama la
Fiat: gli offrono addirittura il posto di amministratore delegato. La moglie di
allora, Mita Crosetti, gli dice di non andare. Lui risponde: «Uno che è nato in fondo a un cortile a Torino e ha sempre ammirato da lontano l’Istituzione con la I maiuscola non può dire di no». Spiegherà più tardi a Massimo Gaggi: «Decisi di andare per debolezza, per vanità e anche per una sottovalutazione da parte mia. Ma se uno è nato a Torino, vive a Torino, fa il fornitore della Fiat e, a 40 anni, il re lo
chiama e gli dice “vuoi venire a fare l’amministratore delegato della Fiat?”, beh, lei capisce... Io comunque posi una condizione: vengo ma come azionista:
vendo la mia azienda alla Fiat e col ricavato compro il 5% della Casa torinese.
Ecco, quello fu l’errore: mi illusi di essere un co-padrone». Dura poco perché i caratteri sono incompatibili: non passano neanche quattro mesi che sbatte la
porta e se ne va (4 maggio-25 agosto 1976)
• In quello stesso anno fonda la Cir (Compagnie industriali riunite),
trasformando una vecchia conceria in una finanziaria. La quota in Borsa e la
sistema dentro un’altra sua finanziaria, la Cofide. Costanti della sua azione successiva: fare
affari cercando di tirar fuori meno denaro possibile (Cuccia negli anni
Novanta, di fronte alla necessità di un’ennesima ricapitalizzazione Olivetti, lo mandò fuori dai gangheri imponendogli a brutto muso di mettere sul tavolo, per
cominciare, 30-50 miliardi dei suoi), scaricare le perdite sulla pubblica
amministrazione (quando Olivetti non ce la faceva - il che capitava
ciclicamente - De Benedetti convinceva il governo in carica a sobbarcarsi il
costo dei lavoratori eccedenti o con casse integrazioni straordinarie o
facendoli assumere da strutture pubbliche, enti locali compresi), tenere
rapporti d’affari con la pubblica amministrazione (è rimasta leggendaria l’operazione con cui vendette alle Poste una partita di telescriventi
malfunzionanti), condizionare le forze politiche e principalmente quelle di
sinistra, erette a referenti preferite del suo sistema (tentò prima di prendere il Corriere della Sera e, dopo la battaglia per la Mondadori,
ha definitivamente comprato da Scalfari e Caracciolo Repubblica, L’Espresso e la catena di quotidiani Finegil, dal Tirreno di Livorno alla Nuova
Sardegna). Durante il quinquennio berlusconiano ha fondato l’associazione Libertà e Giustizia che ha tra i suoi obiettivi la nascita di un Partito democratico
che riunifichi le forze della sinistra e di cui De Benedetti ha virtualmente la
tessera numero uno. Considera Prodi di passaggio, punta dichiaratamente su
Veltroni e Rutelli. è uno straordinario giocatore di Borsa
• è entrato in Olivetti nel 78, proprio nel momento in cui l’azienda stava trasformandosi da meccanica in elettronica. Non è mai riuscito - ad onta di vari accordi internazionali - a riportarla agli
splendori dei tempi andati (quelli di Adriano Olivetti, morto nel 60), anzi ha
dovuto ristrutturarla e ricapitalizzarla. Nel 97 (31 luglio) ha lasciato che
Colaninno se la prendesse. Gli avversari lo accusano di aver speculato
lungamente al ribasso sul titolo, adoperandosi in prima persona per deprimerlo
(interpretazione della lunghissima discesa della quotazione negli anni
Novanta). Massimo Mucchetti ha scritto che alla sua uscita da Ivrea «aveva distrutto ricchezza per seimila miliardi di lire». Lui gli ha risposto così: «Capii per tempo che in Europa non si potevano più fare computer. E l’Olivetti è stato l’unico produttore europeo a sopravvivere dandosi una nuova missione: gli altri
sono spariti. Omnitel, da me fondata, si è rivelata la più grande creazione di valore della storia recente d’Italia». Ma perché lascia poco prima del boom? «Fui costretto dalle banche. Soprattutto da Mediobanca. Nessuna capì le potenzialità di Omnitel. Che cos’erano i debiti della vecchia Olivetti davanti alle prospettive di quel gioiello?
Niente. Ma le banche misuravano solo i metri quadri dei capannoni»
• I momenti clou della sua attività negli anni Ottanta sono tre: il blitz sul Banco ambrosiano; l’internazionalizzazione del business attraverso l’acquisto della Valeo e l’Opa su Société Générale de Belgique; il tentativo di creare un forte polo alimentare comprando la
Sme dall’Iri • Calvi (13 aprile 1920-17 giugno 1982). Siamo nel 1982. Roberto Calvi,
presidente dell’Ambrosiano e vero padrone del Corriere della Sera (ne aveva comprato il 40 per
cento attraverso la Centrale), super iscritto alla Loggia P2, reduce dal
carcere e tra poco latitante e poi cadavere sotto il Blackfriars Bridge di
Londra, è pressato da monsignor Marcinkus, patron dello Ior (la Banca vaticana), che
vuole il saldo dei suoi crediti. Calvi chiede perciò aiuto a De Benedetti e De Benedetti, che vuole il Corriere (non ha ancora
Repubblica), sborsa 32 miliardi e compra il 2 per cento della Banca. Ma vuole
vedere i conti perché sa che di Calvi non ci si può fidare. Calvi non glieli fa vedere, lui minaccia di chiamare la magistratura e
viene precipitosamente liquidato con un congruo margine, tanto che poi, quando
il Banco ambrosiano fallirà, sarà processato e condannato a 4 anni e 6 mesi (condanna poi annullata dalla
Cassazione)
• Preso un terzo della francese Valeo, fabbrica di componenti per automobili (un’acquisizione che ha fatto epoca: rivenderà il pacchetto nel 96 per più di un miliardo di dollari), tenta nell’88 di dare l’assalto alla Société Générale de Belgique, ma canta vittoria troppo presto e la politica lo blocca. è lui stesso ad ammettere lo sbaglio: «Persi per colpa mia. Peccai di troppa arroganza, perché dichiarai di aver vinto prima del tempo, e di troppa prudenza, perché lanciai l’Opa, alla quale non ero obbligato, quando avevo il 15%: sarebbe bastato
rastrellare in silenzio fino al 30%, e sarebbe stata fatta»
• Quanto alla Sme, il caso ha occupato le pagine dei giornali fino ai nostri
giorni per via del processo a Berlusconi e Previti: l’Iri, guidata in quel momento da Romano Prodi, aveva deciso di disfarsene e
accettò l’offerta di De Benedetti: 397 miliardi di lire da pagare in 18 mesi più altri cento miliardi provenienti da Mediobanca e Imi (soci finanziatori). Alla
conferenza stampa del 30 aprile 1985, De Benedetti disse: «è la prima volta in Italia che un privato acquista da un ente pubblico pagando
con soldi veri, non con pezzi di carta o con impegni a babbo morto». Vittorio Malagutti: «De Benedetti, che già controllava l’Olivetti, era allora più che mai sulla cresta dell’onda. Pochi mesi prima, a febbraio, aveva rilevato la Buitoni, marchio storico
dell’industria italiana. Messe insieme, Sme e Buitoni facevano dell’Ingegnere il più importante imprenditore italiano del settore alimentare, con un giro d’affari di 4.000 miliardi di lire. Colossi come Barilla e Ferrero venivano
distanziati. Sotto l’ombrello della Cir, la holding di De Benedetti, erano raccolti marchi importanti
come Motta e Alemagna, i pelati Cirio e le patatine Pai». Prodi, all’epoca iscritto senz’altro tra i democristiani di sinistra, aveva però fatto tutto a gran velocità e senza avvertire il presidente del Consiglio, che era Craxi, socialista e
dunque per definizione nemico dei democristiani di sinistra. Craxi, ricevute
anche le telefonate di protesta dei concorrenti della Sme, decise di mandare a
monte l’affare, chiese a Berlusconi di formare una cordata alternativa e questi gli fece
il favore senza problemi costituendo la Iar (Berlusconi più Barilla e Ferrero) che offrì 600 miliardi. «Il 15 giugno si arriva al colpo di teatro. Tutto da rifare. La Sme torna a casa.
Darida (
ministro delle Partecipazioni statali) annuncia che la holding pubblica dell’alimentare dovrà essere messa all’asta tra i vari soggetti che hanno manifestato interesse. Infatti, oltre alla
Iar, si fanno avanti un paio di altre cordate, tra cui una delle Coop rosse.
Per Prodi è uno schiaffo pesantissimo. Non a caso in un memoriale inviato otto anni dopo al
pool di Mani pulite, Prodi descrive il suo primo mandato alla guida dell’Iri come il “suo Vietnam” e certo la vicenda Sme è una delle sconfitte che brucia di più. Anche De Benedetti, ovviamente, la prende molto male. Il 25 giugno del 1985,
durante l’assemblea della Buitoni, l’Ingegnere spiega a un azionista che l’acquisto della Sme non gli è riuscito perché “ci sono state interferenze politiche e perché non ho pagato mazzette”» (Vittorio Malagutti). Il ricorso della Buitoni (cioè di De Benedetti) viene respinto dal giudice Filippo Verde che giudica l’intesa Prodi-De Benedetti non valida. I ricorsi successivi non hanno esito e De
Benedetti decide di lasciar perdere e di rinunciare all’alimentare (nel marzo 88 venderà la Buitoni alla Nestlé). Da queste sentenze avrà origine il famoso processo Sme, basato sull’ipotesi che il giudice Verde abbia emesso la sua sentenza a favore di Berlusconi
perché corrotto da Previti. Verde alla fine sarà assolto e Previti condannato per corruzione semplice. Nel 1992 le attività Sme vennero vendute separatamente a un prezzo superiore ai duemila miliardi di
lire, circostanza che ha alimentato la polemica intorno al prezzo che Prodi
aveva concesso a De Benedetti: basso o congruo? Giancarlo Perna, che sostiene
la tesi del prezzo irrisorio, ha messo in evidenza che la Sme sarebbe stata
pagata da Benedetti a «930 lire per azione, contro le 1.290 della quotazione in Borsa. In più, nelle casse della Sme c’erano 80 miliardi liquidi che sarebbero finiti quatti quatti nelle tasche dell’Ingegnere compratore»
• La guerra per la Mondadori (1991) fu una battaglia legale molto complicata che
possiamo riassumere così: De Benedetti, azionista di minoranza della Mondadori, aveva stretto un patto
con Luca Formenton, titolare del pacchetto che avrebbe potuto portare De
Benedetti in maggioranza: a una certa data e per una certa somma, Formenton
avrebbe ceduto a De Benedetti i suoi titoli. Ma su quell’automobile viaggiava anche un altro passeggero e si chiamava Silvio Berlusconi a
sua volta titolare di una quota di minoranza che, unita a quella di Formenton,
avrebbe potuto dargli il possesso dell’azienda. Qui si vede la diversità di comportamento dei due grandi rivali: De Benedetti e il suo entourage, che
non erano ancora entrati nella grande casa editrice, trattavano Formenton come
un ospite indesiderato e ingombrante di cui si aspettava con ansia la
fuoriuscita. Berlusconi, invece, prese a corteggiarlo alla sua maniera,
facendogli percepire simpatia, stima, calore umano. E promettendogli
naturalmente più denaro di quello che offriva De Benedetti. Finì che Formenton, a un certo punto, denunciò il patto con De Benedetti e consegnò il suo pacchetto a Berlusconi. Ma si trattava di un pacchetto di azioni
ordinarie, mentre De Benedetti aveva passato gli ultimi due anni a rastrellare
le Mondadori privilegiate e risparmio, al punto che ne aveva quasi il 70 per
cento. Ne veniva che il duo Berlusconi-Formenton aveva la maggioranza nell’assemblea dei soci ordinari (a cui le privilegiate e le risparmio non erano
ammesse) e De Benedetti aveva la maggioranza nelle assemblee straordinarie.
Quindi la Mondadori e le sue partecipate (tra cui Repubblica, posseduta al 50
per cento) erano paralizzate perché ogni decisione dell’assemblea ordinaria veniva rovesciata dalla straordinaria e ogni decisione della
straordinaria era rovesciata dall’ordinaria. Se ne uscì col lodo Ciarrapico: Andreotti, presidente del Consiglio in quel momento
(1991), mandò Ciarrapico a metter pace e questi obbligò le parti ad accettare la spartizione: la Mondadori a Berlusconi; Repubblica, L’Espresso, la catena dei giornali locali Finegil a De Benedetti
• Tra i due, cioè tra Berlusconi e De Benedetti, si è registrato nella primavera del 2005 un interessante avvicinamento. Leggiamo il
Sole 24 Ore del 29 luglio 2005 (a firma Luca Orlando): «Carlo De Benedetti, nel suo studio di Via Ciovassino, racconta l’incontro con Silvio Berlusconi dello scorso aprile. Inusuale già in partenza, dopo 16 anni di silenzio assoluto [...] Inusuale nella
conclusione, quando si è parlato di affari e De Benedetti ha esposto il progetto di lanciare un fondo di
private equity dedicato ai risanamenti aziendali. “Ecco — racconta De Benedetti di quell’incontro — questo è l’unico obiettivo che vorrei realizzare. Tu quanto metti? — mi ha chiesto Berlusconi —. Cinquanta milioni di euro. E allora, se sei d’accordo, farei altrettanto anch’io”. Un nuovo accordo bipartisan? Un cambiamento di visione politica dell’Ingegnere? “Niente di tutto questo — assicura De Benedetti — io l’ho ringraziato. è stato un colloquio piacevole dopo anni di ostilità”». De Benedetti restituì poi i soldi a Berlusconi, perché preoccupato delle reazioni di Repubblica e di Libertà e Giustizia, che s’erano pubblicamente indignati di un’intesa con l’uomo che combattevano ogni giorno da anni. E tuttavia, molti osservarono che,
dopo quell’accordo, prese corpo la scalata di Ricucci al Corriere della Sera, all’interno di un tentativo di ridefinizione del sistema bancario che assegnava la
Banca nazionale del Lavoro ai laici di sinistra (Unipol, Consorte) e la Banca
antonveneta ai cattolici e alla destra (Fiorani, Fazio)
• Da ultimo, è tra quelli che potrebbero comprare la Telecom, in concorrenza con la Rcs, con
Murdoch e, ancora una volta, con Silvio Berlusconi. Gli attacchi dell’estate 2006 a Marco Tronchetti Provera da parte di Repubblica sono stati visti — con grande indignazione del direttore Ezio Mauro — come un momento della lotta per la conquista dell’azienda telefonica • è sposato con Silvia Cornacchia (in arte Monti, già Dona delle Rose), ha tre figli.