Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
DAMIANI
Damiano Pasiano (Udine) 23 luglio 1922. Regista • «Pasolini l’aveva definito “un amaro moralista assetato di vecchie purezze”, Flaiano “un milanese che sa parlare guardandoti negli occhi”, nonostante la sua rivendicata origine friulana. Ma Damiano Damiani è un po’ così, una specie di “apolide” fuori tempo massimo. Per la geografia ma anche per la critica. Friulano figlio
di friulani, trascorre l’infanzia a Bologna e l’adolescenza a Milano per trasferirsi a Roma alla fine degli anni Cinquanta e
seguire la sua passione per il cinema. Milano, però, dove ha lavorato come illustratore (la prima locandina del Piccolo Teatro, con
Arlecchino e Pulcinella in un teatrino settecentesco, è opera sua), come disegnatore di fumetti per l’Asso di picche su cui esordiranno anche Hugo Pratt e Dino Battaglia, ma
soprattutto diventando il regista di punta dei fotoromanzi di Bolero Film, gli
deve aver lasciato un’impronta indelebile se Flaiano era disposto a riconoscergli quei tratti di
orgogliosa immediatezza che riteneva peculiari del parlar franco meneghino.
Difficile da incasellare è stato anche per il pubblico e per la critica. Certo, Damiani è il regista della prima serie della
Piovra, che nell’84 inchiodava 15 milioni di spettatori davanti alla tv. E prima, aveva firmato
film popolarissimi come Quién Sabe (66) con Gian Maria Volonté, Il giorno della civetta (68) dall’omonimo romanzo di Sciascia, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (71) e L’istruttoria è chiusa: dimentichi (71) entrambi con un ottimo Franco Nero. Ma “il più americano dei registi italiani”, come è stato definito, è anche l’autore di gialli fuori dalle regole come Il rossetto (60) o Il sicario (61), di commedie dure e insolite come La rimpatriata (63, che regala a Walter Chiari il miglior ruolo della sua carriera), di
riduzioni letterarie di insolita sensibilità come L’isola di Arturo (62) o La noia (63), o di una eccentrica, e laica, riflessione sul Cristo (L’inchiesta, 86). Per prima cosa “narratore di storie”, che rifugge dalle leziosaggini e dall’ornato (“il male di tutti i nostri registi” sosteneva Flaiano) per privilegiare essenzialità ed efficacia, Damiani sconta il peccato - imperdonabile in anni di eventi e
iperboli - di non essere “abbastanza autore per le celebrazioni ufficiali e i restauri sponsorizzati, ma
non abbastanza basso per godere di resurrezioni trash, cult o affini” scrive Alberto Pezzotta nel volume che gli ha dedicato. Amaro destino per chi
ha inseguito tutta la vita un “cinema medio” che sapesse conciliare buona fattura e rispetto del pubblico» (Paolo Mereghetti).