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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

DALLA Lucio Bologna 4 marzo 1943. Cantante. Autore. «Quando ero piccolissimo volevo fare il cane»

DALLA Lucio Bologna 4 marzo 1943. Cantante. Autore. «Quando ero piccolissimo volevo fare il cane». VITA Ha iniziato suonando la fisarmonica, poi si è esibito al clarinetto in alcune formazioni di jazz tradizionale, nel 64 l’esordio da cantante (grazie a Gino Paoli), nel 66 il primo Festival di Sanremo (Pafff... bum con The Yardbirds e Bisogna saper perdere con The Rokes), poi scrive Occhi di ragazza (70, portata al successo da Gianni Morandi), nel 71 torna a Sanremo e conquista la popolarità con 4/3/1943. L’anno dopo è al festival con Piazza Grande • «Piazza Grande è solo una canzone. Io non sono di quelli che hanno bisogno di sentirsi definire poeti, le canzoni non hanno a che vedere con la poesia, hanno una loro autonomia, sono frutto di un percorso loro, di una ricerca che ha una sua dignità e un suo posto nell’immaginario collettivo, nella memoria di tutti, credo che sia stato riconosciuto anche questo. La scrissi alle isole Tremiti nel 71, poi la portai a Sanremo, è stata una canzone che ha avuto sempre più successo col tempo, è stata cantata da Morandi e da Ron, l’argomento era aggregante al di là della forma musicale, si prestava ad una fruizione popolare. Quando feci la canzone Piazza Grande era un luogo d’incontro e di dibattito, si discuteva di politica e di sport, c’erano i capannelli, un mondo scomparso che oggi potrebbe interessare agli antropologi. La piazza è sempre stata importante per Bologna che è una citta medievale ma tanti percorsi si sono persi. Oggi ci trovi i turisti, è un luogo di passaggio non è più un punto di riferimento» • Il gigante e la bambina (71) e Itaca (72) conquistano l’hit parade. Col poeta bolognese Roberto Roversi realizza gli album Il giorno aveva cinque teste (73), Anidride solforosa (75), Automobili (76) • «Da Roversi ho imparato tutto, a scrivere da solo le mie parole, ma sopra ogni altra cosa l’emozione pura. Perché quello esprimeva Roversi nonostante volesse consegnare al pubblico italiano una canzone civile. Ogni volta che scrivo qualcosa vado da lui e mi basta il fuoco o la noia che vedo nei suoi occhi per capire se ho fatto bene o male» • Nel 77 torna a una produzione più commerciale con Come è profondo il mare, che segna il suo debutto d’autore dei testi. Le canzoni di successo diventano sempre più numerose: Ma come fanno i marinai (78), L’anno che verrà (79); Balla balla ballerino, Futura (80)… • «Ero a Berlino per un concerto, mi feci portare al check point e mi misi a guardare il muro che allora divideva la città. Ero amico del direttore di Stern e una sera lo andai a trovare in redazione. Dalla finestra si vedeva il muro dall’alto, con quello che c’era al di là, due mondi. Nacque Futura, la storia di una ragazza dell’Ovest che si innamora di un ragazzo dell’Est e insieme vivono la loro storia in una notte di guerra, anche se sono consapevoli che non sopravviveranno...» • «Quando scrissi L’anno che verrà mi pareva inevitabile che qualcuno sarebbe sparito. Eravamo alla vigilia del sequestro Moro» • …quindi la trionfale tournée Banana Republic (con Francesco De Gregori), cui segue nell’88 quella con Gianni Morandi (da cui l’album Dalla/Morandi). Intanto, nell’86, aveva scritto la sua canzone forse più popolare, Caruso, che gli valse riconoscimenti anche al di fuori dei confini nazionali e che conobbe numerose interpretazioni di altri affermati cantanti • «Mi si ruppe la barca, ero tra Sorrento e Capri, mi ospitarono degli amici proprietari dell’albergo dove morì il grande tenore Enrico Caruso. Per tre giorni sentii raccontare la storia del maestro e di quella ragazzina a cui dava lezione di canto e di cui era innamorato. Mi raccontavano di come, in punto di morte, gli fosse tornata una voce così potente che anche i pescatori di lampare la sentivano e tornavano nel porto ad ascoltarla. Caruso è nata così» (da un’intervista di Cristina Taglietti) • Nel 90 l’album Cambio (contenente Attenti al lupo) cui seguono Henna (94), Canzoni (96) ecc. • «Fin da prima della guerra mia madre, sarta a Bologna, veniva spesso alle Tremiti, in Molise, in Puglia. Aveva una vasta clientela. Qui non c’erano negozi di moda e mia madre portava le novità dal Nord, i modelli più recenti. Quando avevo quasi dieci anni, nel 53, una cliente pagò mia madre con una casa alle Tremiti. Cominciai a passare qui tutte le estati. Ricordo quando mi dettero una maschera subacquea; ero un bambinetto e vidi per la prima volta il mondo del mare. Piante, coralli, rocce. Che grandissima emozione; fu come un pugno in faccia, come il primo bacio. Non l’ho mai dimenticato. Anzi, cominciò così il mio grande amore per il mare. Molti anni dopo, pescando nella mia nebulosa, scrissi Come è profondo il mare. Le isole Tremiti favoriscono il mio modo visionario di raccontare il mondo. Ma io amo molto anche la Sicilia; ho una casa a Milo, me la fece comprare Franco Battiato qualche anno fa e ne sono felice. La Sicilia, per me appassionato di arte tedesca e europea, è una terra meravigliosa, estetizzante, che connette le tante culture che l’hanno attraversata, tramite gli artisti viaggiatori che l’hanno percorsa. Ma se la Sicilia è il luogo delle culture, le isole Tremiti sono il mio luogo vitale. Qui vivo a Cala Matàna. La mia casa l’ho comprata alcuni anni fa e l’ho ristrutturata per installarci uno studio di registrazione completo. Dal mio studio si vede il convento e, più giù il mare e la cala tra i pini. Quando c’è la luna non esiste persiana che possa avere ragione della luce che c’è. E allora Cala Matàna diventa talmente bella, bella in modo così imbarazzante che anche le cicale smettono di cantare» (da un’intervista di Silvana Mazzocchi) • Sua madre non aveva 16 anni come nella canzone (4/3/1943) ma 42, non parlava con gli sconosciuti ma con padre Pio; suo papà non veniva dal mare ma faceva il rappresentante. «O forse l’aviatore, non ricordo bene. Aveva il brevetto da pilota ed era anche il direttore del tiro a volo di Bologna. Un gran cacciatore di quaglie e di fagiani» • «“Si è spenta una luce”! Mia mamma mi annunciava così con pietà, dolcezza e, perché no, anche un poco di poesia quello che lei già sapeva, che era accaduto quindici giorni prima e che io intuivo e come solo un bimbo di sette anni può fare, forse avevo già metabolizzato: la morte di mio padre. Eravamo uno di fronte all’altra e lo spazio che ci separava non era più di un metro ma era una distanza che mi sembrava eterna, uno spazio infinito forse perché probabilmente avvertivo come già chiuso il dolore-ferita che aveva provocato alla mamma la morte del babbo e non era scattato o, non so per quale misteriosa ragione, non scattava il mio dolore di orfano per cui mi sentii obbligato a dare una risposta che la tranquillizzasse, certo non altrettanto poetica come “Si è spenta una luce” ma che testimoniasse nello stesso tempo e perentoriamente il mio essere diventato adulto, capo famiglia? Uomo. Con la stessa pietà e con lo stesso amore le buttai le braccia al collo e le dissi: dove andiamo quest’estate al mare? Era una gaffe? Un patetico tentativo di camuffare il dolore dimostrando di saperlo vincere? O un dire quasi: non preoccuparti mamma, da ora in poi ci penso io? Non lo so dire che cosa era, ma in questo squarcio della memoria ho ancora in mente e stampata negli occhi la faccia di mia madre che sbalordita mi stringeva al suo petto e la sensazione oggi come allora di averle dato comunque una risposta. Oggi ripensando a quel dialogo e alle parole che la circostanza della morte di mio padre metteva in bocca a me e a mia madre capisco che più di un dialogo si trattò di una rappresentazione, un momento di teatro famigliare dove la verità veniva celata e la commozione creava il bisogno di andare a pescare nelle zone più misteriose dell’anima, nel pozzo dei ricordi dove giaceva il “già sentito” le parole e le frasi che dovevamo usare. Ho cominciato così, con questo spaccato della mia vita, la lezione» • «Ho studiato fino al primo liceo, ma a scuola andavo male, preferivo andare in giro a suonare. A 17 anni ero già a Roma a fare musica» (da un’intervista di Marina Cavallieri) • «Quando cominciai a suonare non avrei mai pensato di fare il cantante. Ero come un invasato, il jazz mi aveva preso: suonare per me era sacro e quando mi accadde di trovarmi al fianco di Chet Baker o Bud Powell mi sembrò d’impazzire di gioia. Sono un trasgressivo. Vado a istinto, uso il clarinetto in modo anomalo, per suonarlo davvero bisogna saper fare i concerti in Mi bemolle di Mozart» (da un’intervista di Vittorio Franchini). FRASI «Oggi non si può pensare di essere solo un cantante, nella vita il fatto che si canti è saltuario, è un fenomeno isolato, sono le allodole che cantano sempre. Così ogni mio progetto va oltre la musica» • «Quando scrivo una canzone non la scrivo con uno strumento, ma con la testa. è come la ripescassi, come fosse la raccolta di una spremuta di quello che c’è già e che ci circonda» • «I veri poeti sono come i bastardi, tutti li accarezzano, ma nessuno li vuole in casa» • «Sono un nomade dell’anima, certo. La mia anima non sta mai ferma. E la mia forza motrice è la curiosità. Io non rivedo mai quello che faccio. Finita una cosa, perdo ogni interesse e guardo avanti. Un prodotto concluso è come una pastiglia che s’ingoia. Non si torna indietro. La prova per me è che, le poche volte che ho provato a rivedere qualche cosa, non mi è piaciuto» • «Ho sentito sempre una distanza ogni volta che lavoravo insieme a un giovane cantante. Cosa che, del resto, è capitata molto spesso. Quanto alla possibilità di considerare qualcuno il mio successore, no, non trovo nessuno. E poi io non sono di facile riproducibilità. Cambio continuamente, cambio troppo spesso. Probabilmente perché ho sempre fatto la mia strada senza pormi ostacoli né limiti. Ho sempre avuto, ho e avrò voglia di cambiare» • «Io non ho il mito dei ricordi, ma credo nella memoria. Che per me è un misto di memoria storica e memoria liscia. Una sorta di nebulosa che interroga e poi ti risponde da zone misteriose, forse dalla coscienza. Questa memoria mi manda segnali, mi raddrizza, mi mette in tensione. è sempre stato così. Nella mia produzione non c’è mai il presente, ma sempre una specie di commistione tra passato e futuro» • «Per essere un vero artista devi essere un po’ sciamano. Il presente è frammentato e devi poter capire dove ci porta. Io ho sempre visto il tempo come un’onda, concepisco il futuro come un’eco che viene dal passato, anzi penso che sia lo spostamento in massa del passato. Non era forse uno sciamano Pasolini? E Fellini? Se vedi Ginger e Fred, ti sembra l’Italia di oggi; il film era l’anticipazione di quel che sarebbe successo in seguito nel nostro paese» • «Quando insegno Tecniche e linguaggio della pubblicità, all’Università di Urbino, chiarisco all’inizio che il mio modo di vedere è contrario alle regole imperanti nella pubblicità: ospito spesso giornalisti e attori, voglio far vedere che la pubblicità deve anche essere un modo di dialogare. La tv non ha oggi tanto bisogno di informare quanto di esistere; pensi che il 73 % del materiale pubblicizzato sono macchine dai 25 mila euro in su: allucinante, in rapporto all’impoverimento della popolazione» • «La tv è come un caminetto con il pubblico che ci si mette di fronte e gli attori, o chiunque vada davanti alle camere, diventano come i ceppi che bruciano nel camino» (da un’intervista di Alvise Sapori). POLITICA Ammira Prodi e rimpiange Craxi: «Craxi mi chiedeva di suonare per lui ma solo a casa sua, mai alle feste di partito. Non mi ha mai neppure chiesto il voto, tanto sapeva che l’avrei dato al Pci» (Aldo Cazzullo) • Nel 97 disse che gli piaceva D’Alema ma era amico di Berlusconi: «Essere per la gente, per il popolo, per la democrazia. Questi sono valori di sinistra che però possono essere realizzati benissimo anche dalla destra. Se c’è un idraulico bravo ma di destra non è che non lo chiamo perché non la pensa come me» • «Non condivido la furia antiberlusconiana anche perché riconosco in Berlusconi un genio della comunicazione. Per capirlo non si deve leggere Paul Ginsborg ma Luciano Canfora, la biografia di Cesare. Berlusconi non è affatto in declino, anche se certo è più bravo a comunicare che a governare. L’ho conosciuto nell’87. Mi invitò ad Arcore l’antivigilia di Natale. Mi accompagnava il mio produttore, ma fu lasciato fuori dalla porta. Berlusconi preferiva vedermi da solo. Pensai a una proposta di lavoro. Voleva solo conoscermi. Parlammo per ore, di musica, di me, del mondo dello spettacolo. Ha assorbito un poco della mia forza. Mi ha chiesto di insegnare alla scuola dei suoi manager, come poi ho fatto. E devo riconoscere che qualche anno prima il mio mito, l’unico politico di cui tengo la foto a casa, Enrico Berlinguer, non mi aveva fatto la stessa impressione. Mi portò da lui Walter Veltroni, insieme con Francesco De Gregori. Un gelo terribile. Qualche parola di tanto in tanto, qualche sguardo. Per spezzare il silenzio gli dissi che trovavo simpatico Cossiga. Sapevo che erano cugini alla lontana, pensavo di fargli piacere. Credo però che avessero litigato, perché Enrico ci rimase malissimo. Siccome non poteva finire così, Veltroni ci riprovò. Ci invitò a cena, e quella volta parlammo. Berlinguer si era preparato. A De Gregori chiese la differenza tra una chitarra acustica e una elettrica. A me domandò chi avrebbe vinto il campionato di basket. E comunque un mito è un mito. Non deve essere simpatico» • Appoggio incondizionato a Cofferati: «Le dico: io abito in una via del centro, ed è pe-ri-co-lo-sa. Bologna è una città con una stabilità sociale apparente, ma in realtà di equilibrio, come tutte le città di oggi, ne ha poco. I sindaci precedenti non hanno voluto mettere il dito nella piaga delle dinamiche complicate di questa scissione cittadina, l’apparente opulenza e il senso di disagio sottostante. Cofferati è l’unico che ha avuto il coraggio di farlo. Gli altri, anche Zangheri, o Vitali, sono stati dei semplici gestori del problema. Cofferati è l’unico che ha avuto il coraggio di entrarci dentro. E guardi, lo dico io che non sono suo amico, lo conosco appena, quando ci incontriamo “ciao Sergio, ciao Lucio” e finisce lì» (da un’intervista a Jacopo Iacoboni). TIFO è un grande appassionato di basket, tifoso della Virtus Bologna. VIZI «Il suo genio pare talora confinare con la follia. Ha perso le amicizie antiche con quelli che furono i suoi colleghi, i Guccini e i De Gregori, “li rispetto ma a me piace cambiare mestiere”: scrittore (Bella Lavita, Rizzoli 2002), editorialista, gallerista d’arte moderna, attore (con i Taviani), regista teatrale (al Piccolo), pilota alla Millemiglia (prima con Bergonzoni, poi con Oliviero Toscani), compositore. Dopo la rivisitazione della Tosca, le musiche per una fiction Rai sulla Contessa di Castiglione. I suoi discorsi sono coerentemente frenetici e sfuggenti. Ha lavorato con Pavarotti e con Califano, è amico di Claudio Abbado e di Maz Gazzé. è incredibilmente umile per un artista» (Aldo Cazzullo) • Umile. «A chi gli fa i complimenti per il violino di 4 marzo 43 risponde che è solo una variazione degli stornelli del Sor Capanna. Una volta definì Caruso, quella da nove milioni di dischi, “la mia canzone più brutta”: “Intendevo dire che ormai non ce la faccio più a sentirla”» (ibidem) • «Ho una manualità catastrofica, ho imparato ad allacciarmi le scarpe a ventun’anni. Non ho mai dato valore ai gesti che mi riguardano, eppure ho imparato da subito a usare gli occhi, le mani e le orecchie come componenti essenziali dell’assimilazione del vivere. E ho affinato l’udito. Non conosco la musica; da ragazzo non trovavo logico seguire i segni scritti, ma la musica mi è sempre entrata dentro con facilità strabiliante. Ecco, diciamo che non c’è dubbio che io sia vittima di un handicap, ma anche che l’ho risolto con allegria. La memoria per me è solo un fatto creativo, a scuola mi piaceva leggere le poesie, eppure non ne ho mai imparata una, mi sembrava troppo stupido. Invece ricordo tutto ciò che m’interessa o che m’intriga, per esempio so tutto di Attila, anche quello che mangiava a colazione» • «Sono stato un pioniere del telefono da portarsi appresso, avevo una centralina montata su un gippone, tanti anni fa, con la quale potevi comunicare ma solo con certe grandi città, Roma, Bologna, Milano, Firenze, Torino; era un oggetto come un meteorite» • Da ragazzo era ossessionato dalla paura del tetano: «Mi spaventava la parola. Chiamavo di continuo la Croce rossa. La quindicesima volta mi hanno mandato al diavolo» • «Se dovessi fare l’analisi chimica dell’esistenza, sarebbe la musica a scorrere sopra ogni altra cosa. Per me la musica è tutto, da trent’anni dormo ascoltandola. In tutte le mie case ho uno stereo, un iPod o un lettore che rimangono accesi tutta la notte e, se qualcuno li spegne, io mi sveglio. è la musica che mi fa entrare nel resto della vita».