Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
CONTE Paolo Asti 6 gennaio 1937. Cantante. Autore • Appassionato di jazz fin dall’adolescenza, prende parte come pianista e vibrafonista a piccole formazioni locali, poi comincia a scrivere canzoni per Celentano (Chi era lui, 66; Siamo la coppia più bella del mondo, 67; Azzurro, 68), Caterina Caselli (Insieme a te non ci sto più, 68), Enzo Jannacci (Mexico e nuvole, 69), Bruno Lauzi (Onda su onda, Genova per noi)
CONTE Paolo Asti 6 gennaio 1937. Cantante. Autore • Appassionato di jazz fin dall’adolescenza, prende parte come pianista e vibrafonista a piccole formazioni locali, poi comincia a scrivere canzoni per Celentano (Chi era lui, 66; Siamo la coppia più bella del mondo, 67; Azzurro, 68), Caterina Caselli (Insieme a te non ci sto più, 68), Enzo Jannacci (Mexico e nuvole, 69), Bruno Lauzi (Onda su onda, Genova per noi). Nel 74 comincia a cantare le sue canzoni. «Proprio come Salgari faccio viaggiare i personaggi delle mie canzoni, senza conoscere esattamente i luoghi che evoco. Mi bastano le sensazioni date da un nome o da un profumo. Ci sono giorni d’inverno, quando fiorisce il calicantus nel mio giardino che basta avvicinarsi ad uno dei suoi fiori per salire su un tappeto volante» • È nato un anno esatto prima di Celentano: «Siamo stati entrambi portati non dalla Befana, come si tende a dire, ma dai Re Magi» • «Il disegnatore Bill Griffith, quello di Zippy, che gli ha voluto fare un ritratto, ha colto perfettamente la sua maschera: le rughe, i baffi, gli occhi buoni, lo sguardo di chi ne ha viste di tutti i colori ma nasconde tutto dietro un broncio bonario» (Giuseppe Videtti) • «Una volta mi chiesero, cosa ti piacerebbe che scrivessero sul tuo epitaffio? E io: “È stato il miglior suonatore di kazoo del mondo”. A me questa etichetta va benissimo, abdico volentieri a qualunque riferimento vocale e mi sparo tutta una carriera sul kazoo. È uno strumento di origini antiche, primitive. Si costruiva facilmente anche in casa. Io e mio fratello, da bambini, lo facevamo con il pettine e la carta velina. Nel periodo in cui tenevo concerti da solo, perché l’orchestra non potevo permettermela, mio fratello Giorgio mi regalò un vero kazoo, che ho sempre conservato gelosamente, perché usandolo avevo l’impressione di avere alle spalle un’orchestra fantasma. Mi piace il fatto che sia uno strumento con una vaga parvenza umana, perché alla fine sempre di vocalismo si tratta» • «Ha più volte dichiarato che l’impulso primario di ogni sua canzone È sempre musicale; È un gruppo di note, un tema, un motivo, chiamatelo come volete, a proporsi prima come grumo sonoro e quindi via via a definirsi, ordinarsi, compiutamente comporsi. In altri termini, in principio per lui È la Musica, appresso viene il Verbo. In lui le parole scaturite dalla musica hanno contemporaneamente una totale autonomia poetica e una totale intrinsecità con la musica stessa. Le parole sono figlie della musica, portate nel ventre della musica, il loro Dna È lo stesso. Non sono un vestito di stoffa, ma pelle viva» (Andrea Camilleri) • «Io sono un appassionato di tanghi tedeschi, me li faceva ascoltare mia madre, quelli delle cantanti espressioniste come Zara Leander. Erano fatali, l’anima musicale tedesca che si esprimeva con la stessa esuberanza di quella argentina. Il mio preferito era uno che si chiamava Warum» • «Il suo colore È il grigio scuro, tra l’antracite e il fumo di Londra, una mise sempre elegante e severa che ora si impasta bene col colore bianco dei grandi baffi. A sprigionare ironia ci pensa il volto, il grande naso, lo sguardo candido e sornione» (Gino Castaldo) • «Sono laureato, in Giurisprudenza, ma all’epoca, per vari motivi, un po’ perché non avevo punteggi stratosferici, poi perché già pensavo ad altro, fu una cosa sbrigativa, mi ricordo: era un freddo mattino di nebbia, senza nessuno che mi festeggiava» • «Non mi È mai piaciuta l’attualità, l’oggi: per comprenderlo e trascriverlo deve passare del tempo, almeno vent’anni. Preferisco parlare del mondo del dopoguerra, quando scoprivo il jazz e anch’io sognavo le mie evasioni. Anche il sogno (la Francia degli alberghi nel pomeriggio, il Sudamerica lontano) È un modo per prendere distanza dalle cose, raccontare storie ordinarie come fossero grandi avventure. Il tutto magari condito con un po’ di tenera ironia. Di certo c’È che io, da nordico, scrivo per raccontare storie, non sono madrigalista, lirico, come al Sud. Poi, raccontando storie, non voglio dare messaggi, fare l’engagé» • «Io, come autore, cercavo una credibilità vocale. Non mi soffermavo troppo sul personaggio. Non mi piaceva chi cantava da cantante, preferivo quelli che usavano la lingua italiana in modo credibile, naturale. Ecco perché mi È sempre piaciuto tantissimo Celentano. E Aznavour, che ha tutto quello che un cantante deve avere. Per me gli anni Sessanta furono il periodo in cui i testi si presero la rivincita sulla musica. Ci sono state delle canzoni italiane degli anni Trenta e Quaranta che erano meravigliose, ma liricamente deboli: linguaggio ampolloso, forzato, rime mal congegnate. Negli anni Sessanta ci fu una rinascita di valori poetici, che in Francia c’era ormai da tempo, Brassens, e prima ancora i testi della Piaf. Tutto questo si esaltava nella qualità interpretativa di voci non perfette, ma uniche» • «Ne ho viste di tutti i colori. Mi facevano molta simpatia i cantanti di allora. Mi ricordo l’Equipe 84, Maurizio Vandelli che arrivava con la Rolls e Alfio Cantarella con la Ferrari. Era un mondo che io cercavo di capire. Sentivo che quegli artisti avevano potere e delle grandi potenzialità, anche se molti di loro erano dei bravi “ricopiatori” di cose straniere. Ma siccome io non avevo sentito gli originali, perché ascoltavo solo jazz, non avevo notizie precise di quel che avveniva in America o in Inghilterra, quindi mi sembravano tutti dei geni, degli innovatori. Poi, a un certo punto, mi accorsi che stavo scrivendo, in una maniera meno esportabile, canzoni che non avrei potuto facilmente mettere in mano ad altri, più ermetiche. Non ricordo quale fu il primo brano che mi rifiutai di dare, ma a un certo punto cominciai a tenermi le canzoni nel cassetto. Temevo che non sarebbero state capite» • «In genere mi rivolgevo agli editori con i provini, a volte uscivano fuori interpreti a sorpresa. Quando affidi la tua canzone a un altro o segui da vicino tutto (l’arrangiamento per esempio È importantissimo) o vai incontro a dei rischi. C’È sempre la possibilità che un vero interprete crei qualcosa di grande e inaspettato, ma c’È anche il rischio del tradimento. Io però con Azzurro cantata da Celentano ho seguito passo passo il lavoro dell’orchestra, attento a certi colori musicali che ritenevo essenziali; fu così anche con Benigni e Via con me» • Sul primo concerto da cantante: «Avevo già i baffi. Era di mezza stagione, ero vestito di velluto marron. Mi ricordo che avevo un piano verticale, e durante le prove avevo appoggiato una bottiglia di acqua minerale che poi ho dimenticato. Quando poi di sera sono entrato in scena, nel buio, gli ho dato un colpo e ho subito battezzato le prime file. C’era già tanta gente, ad ascoltarmi, un 400-500 persone; poi per 5-6 anni ho suonato ai Festival dell’Unità e mi piaceva anche: l’intellighenzia allora era lì, erano belle le feste con le donne che facevan da mangiare, si compravano i libri negli stand. Ho tenuto concerti anche a qualche grosso Festival dell’Unità, a Roma Genova Milano; leggendarie le kermesse emiliane, con quel buon profumo di costine di maiale» • «Io non sono uno che ha letto l’iradiddio, ho seguito degli innamoramenti. Pavese, per esempio, anche se poi, da piemontese, tutta quella mistica della campagna profonda fatta da un professore di Torino non mi convinse più. Certo, ancora oggi, se apro una pagina qualsiasi di Pavese, mi strega sempre. Poi metterei il poeta greco Seferis, Kipling che amo moltissimo e Piero Chiara, grandissimo, per il mondo che racconta e per il linguaggio che usa» • «Ci può essere una canzone che ti È molto cara, che ha dentro qualcosa a cui tieni enormemente, però la senti che È piccola. C’È invece quell’altra che È obiettivamente più comprensibile, ti piace e può piacere agli altri. Puoi farci intorno tutte le masturbazioni estetico-intellettuali che vuoi, ma ci sono canzoni che a peso cantano, altre meno, altre per niente. Ne abbiamo sentite di tutti i colori in questi anni sul potere di una canzone. Personalmente, non ho mai condiviso la presunzione che una canzone possa cambiare il mondo. Posso capire che una canzone possa far compagnia, siglare un periodo della vita, mettere un sigillo su una storia d’amore. È un mezzo di comunicazione nella misura in cui l’arte, in ogni caso, comunica. Una canzone può segnare un’epoca, questo sì. La canzone ha un odore e può portarti il profumo di una certa situazione, di un momento. Se ascolto Ma l’amore no, sono investito immediatamente dal veleno di quegli anni di guerra» • «Come tanti compositori che scrivono prima le musiche e poi le parole, in genere scrivo con un finto inglese, che È elastico, ti fa sognare molto di più, i pezzi rimangono più astratti, poi quando devi fare i conti con l’italiano cambia tutto» • «Credo fermamente che la gabbia metrica e la rigidità della lingua italiana (quasi impossibile da usare su accordi jazz, meglio invece sui ritmi latino-americani), se all’inizio creano problemi, alla fine ti costringono a un’essenzialità che fa bene al testo. Forse È anche per questo che uno degli scrittori che amo di più È Simenon. Dei suoi libri Gide diceva: non c’È un’oncia di grasso letterario. E viceversa, nel poco lavoro di forbice, sta il difetto delle canzoni italiane degli anni Trenta e Quaranta. Spesso bellissime, però avevano il loro punto debole nel testo, nelle rime facili cuor/amor. Si riscattavano invece nei titoli, azzeccati come slogan pubblicitari, tipo Bellezze in bicicletta» • «Mi ricordo una volta, anni fa, era d’estate, dovevo finire di scrivere le canzoni per un album, non avevo idee, ero disperato. Così finii per comprare un nuovo rimario. Tornato a casa, lessi sul risvolto di copertina: contiene frasi di autori come Paolo Conte. Lo buttai via» • «Il piacere più grande lo provo quando qualcosa di mio arriva anche all’uomo della strada. Poi, confesso, quello che cerco È in fondo l’applauso da circo, quello dei teatri. Io nei concerti ci metto il cento per cento, sono come un acrobata che cammina sul filo e che quando arriva in fondo aspetta l’applauso» • «Sul palco, durante i concerti, accecato dai fari, non vedo niente. Sento l’applauso: un gesto meccanico, automatico, che chiude il silenzio dopo il suono. Ma c’È applauso ed applauso. E c’È il silenzio fatto di respiri, che si fa sentire» • «Se mia moglie È in platea la cerco con gli occhi, perché lei È la quintessenza del mio pubblico» • «Desidero sempre lasciar sognare gli ascoltatori, non violentarli con un pensiero mio a cui devono sottostare. Diciamo che un aspetto confessorio non lo vorrei mai rintracciare in quello che scrivo, un po’ di vita vissuta c’È ma non in modo diretto perché mi turberebbe, mi toglierebbe quel fantastico che È la molla che fa muovere i personaggi» • «Mi ritengo già fin troppo fortunato per quello che sono riuscito a ottenere perché all’inizio mai mi sarei aspettato un favore di questo tipo. Sono sempre stato parco nelle richieste verso me stesso, ho sempre continuato a sperare di scrivere una bella canzone, magari migliore di altre, niente di più. Forse avrei potuto osare di più, musicalmente, chissà... un modo più anarchico» • «Ancora oggi quando scrivo qualcosa che mi piace sogno che potrebbero cantarla Aznavour, Stevie Wonder, Ray Charles, l’abitudine mi È rimasta, poi mi adatto a farle io» • «I libri di giurisprudenza, per affetto, li ho ancora tutti, ma non li apro mai. Non ho rimpianti dal punto di vista professionale, ma a volte, nelle notti d’insonnia, mi torna in mente un caso che seguivo, e cerco di ricordarmi qualche elemento di diritto, piccole nostalgie...» • «Ho alcuni vizietti, cose che la televisione italiana riesce a fare benissimo: La squadra, anzitutto. E poi, su quell’onda, me li sono fatti tutti, Distretto di polizia, Montalbano, Don Matteo, Carabinieri. Ma il top rimane La squadra con Tony Sperandeo. Istintivamente invece, ancora prima che partissero, ho rifiutato in blocco tutti i reality show. Non li reggo. Se riescono a mettere in piedi qualcosa come Music farm, la crisi del disco deve esserci davvero» • «Io sono un grande appassionato del vecchio “fùtbol”, altri ritmi, bassi se vogliamo, senza l’atleticità e l’esasperazione di oggi. E senza tanti schemi. Amo il fùtbol dove il terzino fa il terzino e non l’ala, i numeri vanno da 1 a 11, i calciatori hanno le scarpe nere, anche per questione di estetica, non gialle che sembrano anatre» • «Nella mia vita il vizio della pittura È molto più vecchio rispetto a quello della musica. Risale a quando ero bambino, poi magari sono stato anni senza toccare pennelli o matite. Da piccolino disegnavo trattori. Crescendo ho disegnato donne nude e musicisti di jazz».