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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

CITATI

Pietro Firenze 20 febbraio 1930. Critico letterario. «Non si è geni se non si conoscono servi e portinaie».



VITA «Io ho avuto una formazione francese. In casa nostra si parlava francese, un po’ come nei romanzi russi. Abitavamo in Liguria, a Cervo, in una casa immensa.
Leggevo a sei-sette anni le storie di Madame de Ségur. Una volta scoprii due casse di libri in una stanza e fu così che mi ritrovai a leggere Buffon a dieci anni» (da un’intervista di Paolo Mauri) • «Nel 1937, a sette anni, frequentavo la terza elementare in un istituto gesuitico
di Torino, dove, molti anni prima, aveva studiato Mario Soldati, dal quale
ereditai il mite e benevolo confessore dei miei peccati. Alle otto e un quarto
uscivo di casa. Risalivo via Donati, e prendevo velocemente corso Matteotti,
che allora si chiamava corso Oporto: un lungo viale di ippocastani — uno dei tanti, bellissimi, verdissimi, profumatissimi viali alberati di Torino,
per me molto più attraenti dei boulevards di Parigi. Solo a Torino l’albero si alleava così armoniosamente con la linea retta, che la città venerava sopra ogni cosa, come se fosse disegnata dalla mano impeccabile di un
Dio matematico. Per almeno quattro mesi, corso Oporto era coperto di neve,
perché allora, come oggi dicono terrorizzati i giornalisti della televisione, Torino
era sempre stretta “dalla terribile morsa del ghiaccio”. Nessuno se ne accorgeva, o se ne lamentava. Quanto a me, ero felice: quei
mucchi di neve si prestavano ai miei giochi; tirare palle di neve ai compagni,
foggiare pupazzi, e soprattutto bagnarsi, sporcarsi le mani, la faccia, i
vestiti, le scarpe, il massimo desiderio di ogni bambino. Lì accanto, sul lato sinistro di corso Oporto, si affacciava casa Agnelli: una
specie di Palazzo Farnese del ventesimo secolo, con marmi, bugnati, pietre
serene e giardini interni. Agli occhi dei torinesi, impersonava il potere; e
accoglieva le generazioni che avrebbero guidato dopo la guerra la Fiat e l’Italia. Come ad ogni bambino, a me del potere non importava niente. Ma speravo
di vedere uscire in automobile il senatore Giovanni Agnelli, l’antico, elegante ufficiale di cavalleria, avvolto ai miei occhi da un alone
fantastico di leggenda»
• «Come disse un professore a mio padre, ero un alunno negligente» • «Io ero un borghese, mia madre non lavorava fuori casa, e poteva occuparsi di me
e dei miei fratelli» • «Frequentavo la Normale di Pisa. Tutti i giovani erano comunisti. C’era una sorta di dittatura sotto il segno di Delio Cantimori, che pure era una
dolce persona. L’atmosfera era irrespirabile. il buon senso comune del Pci intollerabile. Bandita
l’ironia, i sentimenti raccomandati erano quelli che rendono la vita grigia,
mediocre. Trascorrevo le estati in Liguria (dove Rousseau, Buffon, l’Enciclopedia furono le mie prime letture) ma vivevo a Torino, dove ho passato la
mia infanzia. Scuole dai gesuiti, il Liceo d’Azeglio, poi non ressi più la pedanteria, l’ordine piemontese. Andai a Pisa, alla Normale, e dopo la laurea mi trasferii per
tre anni all’estero, uno a Zurigo con una borsa di studio, due come lettore d’italiano all’Università di Monaco di Baviera, grazie a Gianfranco Contini. Quei due anni in Germania,
mentre il Paese era impegnato nella ricostruzione, mi sono rimasti molto
impressi»
• Alla metà degli anni Cinquanta tornò in Italia: «A Roma. Dovevo insegnare alcuni anni nelle scuole per poter chiedere di nuovo di
essere inviato all’estero. E invece sono rimasto. Io sono uno dei tanti italiani del Nord che ha
tradito con gioia la sua terra d’origine e ama immensamente Roma. Ero un insegnante irregolare, trascuravo la
Storia e la Geografia, leggevo in classe. Vivere con 49.500 lire al mese non
era facile. E cominciai a collaborare sui giornali. Negli anni Cinquanta,
scrivevo su il Punto, un settimanale nato per appoggiare il centrosinistra, una
specie di Mondo per i poveri. Io facevo recensioni di narrativa, Pasolini di
poesia. Più o meno in quel periodo, Livio Garzanti mi offrì una consulenza. Garzanti era un essere insopportabile eppure era un grande
editore. Anzi, il più grande editore italiano. Con molto più talento anche di Giulio Einaudi. La passione con cui ha pubblicato il
Pasticciaccio di Gadda e con cui l’ha saputo imporre è una cosa straordinaria» • Scrisse sul Giorno: «Il direttore Italo Pietra aveva inaugurato la pagina letteraria. Usciva il
mercoledì, e a settimane alterne ci scrivevamo io e Arbasino. Era circa il 1960, e
avevamo trent’anni. Io e Arbasino eravamo completamente diversi. Ci accomunava la passione per
Gadda, questo sì. Avevo fama di cattivo, scrivevo pezzi molto feroci. Alcuni ingiusti, altri no,
come la stroncatura dello Scialo di Pratolini. Oggi parlo solo dei libri che mi piacciono» • Ha scritto sul Corriere della Sera: «Arrivai nel 73, ai tempi di Ottone. Il primo articolo fu un ritratto di Manzoni
che prendeva tre pagine intere. Provocò un grande scandalo, perché parlavo della passione edipica di Manzoni per la madre, dei suoi complessi
rapporti con i figli: monsignor Cesare Angelini mi scagliò una maledizione. Ma io avevo carta bianca. Anche per la lunghezza dei miei
articoli, che erano sterminati» • «A metà degli anni Sessanta, cominciò a crescere in me la voglia di scrivere libri. Mi misi a lavorare su Goethe, a
cui ho dedicato molti anni» (da un’intervista di Ranieri Polese) • «Quando ero giovane, andavo sempre a trovare Cecchi, nel suo studio vicino alla
porta di casa, da dove controllava, credo, l’andirivieni dei macellai, verdurai, formaggiai, postini. Sentiva di abitare nel
caldo cuore vivente della casa. Credo che avesse molta simpatia per me: molta
meno considerazione per il mio talento di critico. Un giorno mi disse: “Il suo articolo è intelligente, ma non rende la cosa”. Aveva perfettamente ragione. L’essenziale, nella critica letteraria, è rendere la cosa. Ora, credo di essere diventato un pochino più bravo»
• «Con Macchia avevamo lo stesso tabaccaio, parrucchiere, farmacista, e dentista.
Ciò creava tra noi un rapporto strettissimo, molto più grande di quello dato dai libri. E poi parlavamo, parlavamo interminabilmente.
Era delizioso e spiritosissimo. Quasi sempre lo stesso tipo di conversazione:
frivola, pettegola, aneddotica, qualche volta perfida, con rapidi scorci sui
libri» • «Praz era una delle persone più buone e affettuose che abbia mai conosciuto. Dopo tanti anni, mi sento ancora
irradiato dal suo affetto e dalla sua gentilezza. Abbiamo lavorato insieme: ho
curato due dei suoi libri. Cecchi ha scritto, probabilmente, i più bei saggi letterari del Novecento. Ma, a un certo punto, ha pensato che la
letteratura è una cosa così grande che è inutile parlarne. L’opera di Praz è la più folta, ricca, colorata, sensuale del secolo. Per certi aspetti, è la più tragica. Aveva il demone dell’analogia: il dono maggiore di un critico»
• «Non saprei scrivere romanzi: mi mancano completamente i doni della immaginazione
e della visione, senza i quali non si possono scrivere. Ho invece il dono della
costruzione. Posso raccontare — cioè interpretare raccontando — solo cose che altri hanno già raccontato» (da un’intervista di Doriano Fasoli) • Libri: Goethe (Adelphi, 1970, premio Viareggio), Alessandro Magno (Adelphi, 1974), Tolstoj (Adelphi, 1983), Kafka (Rizzoli, 1987), Ritratti di donne (Rizzoli, 1992), La colomba pugnalata (Mondadori, 1995), Il male assoluto (Mondadori, 2000), La mente colorata (Mondadori, 2002), ecc.



FRASI «Sono uno scrittore di terz’ordine» • «Proust aveva il fondu, io più modestamente ho il ron ron» • «Proust, se mentiva, mentiva per difendersi, arte che pratico anch’io qualche volta» • «Sono una persona non molto intelligente» • «Sono affascinato dagli aneddoti. Gli aneddoti, nella loro assoluta superficialità, rivelano qualcosa di profondissimo».



COMMENTI «Considerato il pontefice massimo delle patrie lettere, si occupa rarissimamente
di contemporanei. Ciò che lo rende sublime, al di là della sovranità della forma, è l’invidia che provoca fra alcuni colleghi ancora impastati di marxismo e
gramscismo, come Alberto Asor Rosa che lo accusa di “proporre con piglio arrogante un’idea sublime della letteratura in realtà a uso delle masse”, o come Cesare Cases che gli rimprovera di “trasformare l’aristocrazia del genio in un articolo di consumo”. Ammirato da Roberto Calasso per “quella mescolanza di insolente drasticità e furiosa passione che in molti suscita irritazione”» (Pietrangelo Buttafuoco)
• «Il dramma ma anche il fascino dei libri di Citati. Lui riscrive per noi Madame Bovary, Delitto e castigo, L’isola del Tesoro. Una situazione paradossale che è stata tradotta anni fa da Ruggero Guarini in una celebre battuta: “A Citati accade spesso di cedere, non si sa se per troppo amore o troppa
invidia, alla strana illusione di credersi l’autore di cui parla”. Credo che fra troppo amore o troppa invidia, la vera molla che spinge Citati a
scrivere i suoi libri sia alla fine la disperazione. La disperazione che
scrittori di quella forza non ce ne siano più, che romanzi di quella bellezza non ne vengano più. Non a caso Citati indugia, spesso splendidamente, sugli scrittori come
persone, con una nostalgia quasi fisica» (Antonio D’Orrico).



POLITICA «Da giovane, nel 51, a Torino votai alle amministrative per Celeste Negarville
del Pci. Lo considero, quel gesto, un peccato mortale: anche se non l’ho più commesso, potrei finire all’inferno per questo».



VIZI «Da vecchi siamo vittime delle abitudini: amiamo lo stesso studio, la stessa
disposizione dei mobili, lo stesso inchiostro, le stesse passeggiate, gli
stessi vestiti, gli stessi aggettivi; e questo irrita i giovani. Ma l’abitudine non è sempre una qualità negativa: ogni parola e gesto ripetuti possono acquistare col tempo un valore
simbolico, e irradiare significati attorno a sé. Quei luoghi che rivediamo sempre acquistano, per i vecchi, una qualità affettiva intensissima: passare una volta al giorno davanti ai pini di Piazza
di Siena o scendere una volta alla settimana la scalinata di Trinità dei Monti può suscitare emozioni più ricche che fare tre volte il giro del mondo»
• «Sono vanitoso» • «Faccio quello che mi pare e vedo chi mi pare. Uno dei miei migliori amici è l’antico postino di Giuncarico, in Maremma: non certo perché appartiene al popolo, ma perché è molto simpatico e intelligente» • «Non ritengo di appartenere alla società letteraria. Andare ad un convegno o assistere a un premio sono, per me, la
peggiore delle condanne» • A Giovanni Mariotti ha spiegato che, per difendersi dai detrattori, si limita a
non leggerli. Forse mi danno addosso — insinua — perché li ignoro. Ma «nella maggior parte dei casi li ignoro veramente, perché non conosco i loro libri che potrebbero essere anche belli o bellissimi.
Davvero non ho idea di come e di cosa scrivano».