Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
CECCHI D’AMICO
Suso (Giovanna) Roma 21 luglio 1914. Sceneggiatrice. In oltre mezzo secolo d’attività (esordio nel 46 con Mio figlio professore di Castellani) ha lavorato con i registi più importanti: da De Sica a Blasetti, da Zampa a Monicelli, da Antonioni a
Zeffirelli. Per vent’anni è stata la sceneggiatrice fissa di Visconti. Negli anni Settanta ha cominciato a
lavorare anche per la tv, soprattutto con adattamenti di romanzi: Le avventure di Pinocchio, Cuore, La storia. Ha raccontato la sua vita e il suo lavoro nel libro Storie di cinema e qualcos’altro. «Sapevo battere a macchina con dieci dita, avevo studiato e lavorato come
segretaria e interprete, conoscevo le lingue. Ero utile a mettere ordine nelle
idee volanti dei miei amici» • Figlia di Emilio Cecchi, scrittore e finissimo critico letterario e artistico: «Babbo era molto amato e rispettato, quando compì 80 anni - stava da me a Castiglioncello, lo ricordo sempre - fu una pioggia di
telegrammi, di telefonate che lo innervosirono moltissimo. Disse: “Che c...! Pensano che sia bello avere ottant’anni?”» • «I miei genitori erano persone libere da ogni condizionamento. Certo, c’era il regime fascista. Fino al 1938, però, c’erano anche spazi di libertà. Noi ragazze, io e mia sorella, studiammo all’estero: prima in Svizzera, poi a Cambridge. Tornai con una gran voglia d’indipendenza e mi cercai un lavoro: lo trovai al ministero delle Corporazioni,
non ero neanche maggiorenne. Mussolini non era un incompetente come molti
pensano oggi e nei posti chiave aveva messo dei tecnici, non dei fascisti.
Tecnici, e per di più incorruttibili. Tutti controllati, spiati, intercettati. Da allora, sono
diventata molto riservata. Una volta, Mussolini si sedette di traverso sulla
mia scrivania e si mise in posa… Era galante, ma mi parve che portasse il busto e mi sembrò ridicolo. Fu allora, tra questi esperti di economia e finanza, che ho
conosciuto Enrico Cuccia, di poco più grande di me. Parlavamo di libri, di cinema, andavamo alla birreria Dreher, non
faceva sport e non alzava mai la voce. Ho ancora una sua foto, molto bellino,
col ciuffo biondo, nel comodino: andò in missione in Etiopia e mi portò due volumi con l’ex libris del Negus. Siamo rimasti in contatto sempre. Gli incontri e le
amicizie un tempo erano importanti, oggi tutti incontrano tutti. Tra noi,
bastava mezza parola: un grande amico»
• «Ha scritto per Visconti e De Sica, Rosi e Monicelli, Zampa e Blasetti, Antonioni
e Comencini, Zeffirelli e Bolognini; ha firmato Ladri di biciclette e Miracolo a Milano, Il Gattopardo, Rocco e i suoi fratelli, Bellissima e Senso, Salvatore Giuliano e I soliti ignoti» (Paolo D’Agostini) • «Io sono rimasta legata a una mentalità. Uno faceva le cose che lo appassionavano. Mi è rimasto questo vizio. Non mi sono mai considerata professionista, nel senso di
fare un mestiere, perché ho fatto le cose che mi piaceva di fare. Non che mi sentissi “ispirata”, ma appartengo a quegli anni in cui abbiamo illustrato la società che stavamo vivendo. Tutti avevamo l’idea di partire da quello che avveniva. Questo non c’è adesso, forse a nessuno va di parlare di quello che succede, non ci piace»
• «Quando ho cominciato non ci veniva in mente di domandarci: avrà successo? L’atteggiamento è sempre stato: facciamo una cosa che ci piace e cerchiamo di farla bene. Con la
consapevolezza, per quanto mi riguarda, di quello che sapevo fare. Magari poi
il risultato non era quello che speravo, il punto di partenza però era sempre lo stesso» • «Antonioni è estremamente spiritoso. Quanto ci siamo divertiti! Portava dialoghi che a lui
sembravano normalissimi e io mi chiedevo: ma questi chi li dice? Avventure così belle è un pezzo che non mi capitano. Mi sono poi divertita a fare la commedia, in
gruppo. Con Benvenuti e De Bernardi, con Age e Scarpelli» • «Avendo lavorato con tutti, io lo so. Si creano equilibri. C’è sempre quello più creativo, fantasioso, ma anche più dispersivo se non c’è l’altro. E non vuol dire uno più bravo dell’altro» • «Flaiano scriveva pochissimo. Passato il momento dell’idea brillante non gli interessava più, non gli andava di fare il compito a casa» • Su Ladri di biciclette: «Secondo Zavattini finiva che questo aveva cercato tutto il giorno la bicicletta,
tornava a casa e non l’aveva trovata. Ecco perché Sergio Amidei si ritirò, e io entrai al suo posto. Io proposi: finisce che la ruba lui la bicicletta.
Zavattini aderì solo per farmi contenta ma per me era fondamentale» • «Rocco è un film nato dalla fantasia di Visconti e di noi sceneggiatori, a differenza ad
esempio del Gattopardo, che amo enormemente, ma che non esisterebbe senza il romanzo di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa» • «Visconti è stata una grande amicizia. Con Monicelli nel comico e con Visconti nel
drammatico, le mie esperienze migliori sono state tra amici» • «Ero molto amica con la Magnani, anche un po’ vittima, la Magnani aveva bisogno di una vittima che le piacesse» • «Fra i registi di oggi, penso che il migliore sia Nanni Moretti, l’unico che ancora mi incuriosisce un po’» • Il matrimonio con il musicologo Fedele (Lele) D’Amico è del 38: «Il pomeriggio si giocava a tennis. Brava? Ero una tennista decente, genere “Vieni a fare il quarto”. Loro, i d’Amico, erano solo maschi e frequentavano da tempo Castiglioncello. Quella nostra
prima estate la madre annunciò ai figli: “So che vengono le bambine Cecchi. Comportatevi bene o sono guai”. Tra di noi non c’era simpatia; è finita che, addirittura, ho sposato Lele!»
• «Lele era intensamente impegnato in politica. Con Adriano Ossicini e Franco
Rodano erano i fondatori del gruppo dei cattolici-comunisti. Da allora, la
direzione di sinistra, per me, è stata naturale. Come la fede e la frequentazione della chiesa, senza
esagerazioni. Gli anni della guerra e dell’occupazione nazista sono stati difficili, ma fu un’esperienza di solidarietà meravigliosa. Mio suocero, Silvio, fu arrestato praticamente senza motivo,
insieme ad altri intellettuali. Io avevo i miei primi figli piccolissimi,
Masolino e Silvia, cercavo di prendere le difficoltà con allegria. Non avevamo niente, neanche l’acqua, e così imponevo a tutti quelli che salivano a casa nostra, al settimo piano senza
ascensore di via Cantore 17 - la casa del giornalista Paolo Milano, che,
costretto a fuggire perché ebreo, ci aveva lasciato l’appartamento perché glielo custodissimo - di portare un fiasco pieno d’acqua. Noi donne aiutavamo i nostri mariti, padri e zii, che si nascondevano dai
nazisti, davamo una mano con cibi e giornali, messaggi e informazioni utili per
la resistenza, eravamo giovani e incoscienti».