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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

CASELLI

Gian Carlo Fubine (Alessandria) 9 maggio 1939. Giudice. Attualmente procuratore generale
del Piemonte e della Valle d’Aosta. È stato giudice istruttore a Torino nelle inchieste sul terrorismo rosso fino
alla metà degli anni Ottanta. Nell’86 È stato eletto al Csm per Magistratura democratica, poi È tornato a Torino in Corte d’Assise e nel 93 È diventato procuratore di Palermo. Nel giugno 99 È stato chiamato alla guida delle carceri italiane. «A parte i fatti che bisogna conoscere per i motivi d’ufficio strettamente indispensabili, l’esperienza mi ha insegnato che in questo campo meno cose si sanno e meglio È»
• «Famiglia povera, papà da contadino della campagna di Fubine a operaio» • «Una vita tra i Palazzi di giustizia - uditore nel 67 a Torino. “Sono l’unico magistrato italiano al quale il Parlamento ha dedicato espressamente una
legge. Una legge contra personam che mi ha espropriato di un diritto: quello di
concorrere, alla pari con altri colleghi, alla carica di Procuratore nazionale
antimafia”. Una cronaca vista dal di dentro della guerra al terrorismo e poi di quella a
Cosa Nostra, gli incontri in Piemonte con il generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa e gli scontri al Csm per la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione, il processo Andreotti, l’inchiesta su Marcello Dell’Utri, gli attacchi della politica ai cosiddetti processi politici siciliani, le
vicende e le ferite italiane di un quarto di secolo. Voleva andare in Calabria
Gian Carlo Caselli quando lasciò Palazzo dei Marescialli, quattro anni - dal 1986 al 1990 - a duellare con chi
ironizzava sui giudici “sceriffi” e a trasferire giudici “ragazzini” nelle regioni dove spadroneggiavano mafia e camorra e ‘ndrangheta. “Ho pensato che fare un’esperienza in Calabria avrebbe compensato il disagio che avevo dovuto infliggere
ad altri, ma la Sicilia no, non l’avevo mai presa in considerazione”. Aveva un “buon rapporto” con Falcone e “un ottimo rapporto” con Borsellino, dopo le stragi viene scelto come procuratore capo a Palermo e
prende possesso di una stanza dove alcuni suoi predecessori avevano perfino
negato l’esistenza della mafia. Ma non È tutto bianco e tutto nero nella Sicilia di quella stagione dove sembra che l’isola stia per esplodere di rabbia, dove le piazze sono in rivolta contro i
boss, dove dai balconi sventola la protesta dei lenzuoli. Il neo procuratore
sbarca in città e il Ros del colonnello Mario Mori gli fa trovare impacchettato Totò Riina, latitante da 24 anni e 6 mesi. Un successo poliziesco clamoroso,
macchiato però dall’inspiegabile abbandono del covo del corleonese “senza che la Procura ne sapesse nulla”» (Attilio Bolzoni)
• È stato capo della Procura di Palermo dalla fine del 92 all’agosto 99: «Si erano appena patite le stragi di Falcone prima, Borsellino poi, e le loro
scorte. Il magistrato torinese che aveva piegato il terrorismo si propose per
andare a proseguire il loro lavoro. Ricorda: “Iniziò l’operazione Vespri Siciliani, con i militari che sorvegliavano per ventiquattr’ore uffici, abitazioni, ogni tipo di obiettivo sensibile, così da lasciar più libere le forze dell’ordine per prevenzione e attività investigativa sul territorio”. Non È Palermo che Caselli ricorda come luogo indimenticabile. O, meglio, ricorda l’impennata di orgoglio e dignità della gente, ma non può ricordare strade, vicoli, mercati perché li ha sempre visti da un’auto in corsa, in un viaggio camuffato da incidente, da un elicottero, da una
finestra blindata: “Anche la festa di Santa Rosalia l’ho seguita in televisione, nell’appartamento”. Eccolo l’appartamento indimenticabile. Alla Favorita, davanti all’ippodromo, c’È un complesso chiamato Tre Torri che lo Stato sequestra per piazzarci uffici
della Dia, forze di polizia e abitazioni di magistrati: “A me toccò il nono piano. Ottavo e decimo furono lasciati vuoti per precauzione. Davanti
alla porta c’era quella postazione con il filo spinato e il militare armato. Ricordo con
affetto quei giovani che, quando terminava il loro periodo di servizio, mi
chiedevano una foto con loro, fieri di essersi impegnati per la legalità”. L’interno era per assurdo un momento di relax, in piena solitudine. Simbolo
massimo di rischio e di quiete, paradossalmente di libertà di star solo. Solitudine anche per il pranzo: vietate le trattorie, un piatto
in ufficio, dove c’È anche una branda per le notti che la scorta dei Nocs considera più a rischio. La cena È alle Tre Torri. Racconta Caselli: “Mangiavo pesce spada, del quale sono ghiotto, che mi surgelavo io. E poi trippa
e bollito che cucinava e surgelava mia moglie quando venivo a Torino a trovare
la famiglia. Me li portavo a Palermo in quei contenitori frigorifero, in un
angolino dell’aereo militare. Non ho voluto mai che loro mi raggiungessero. Solo una volta,
quando non stavo molto bene, mi ha fatto una sorpresa mia moglie. Dalla
finestra guardavo il Monte Pellegrino, l’ippodromo, le palme, respiravo la città da lì, cercando di sentirne la fisicità, ma il quotidiano, il gusto di una passeggiata era impossibile. Ero
letteralmente impacchettato da quei ragazzi che rischiavano la vita per la mia
e imponevano le regole: dovevi fare come volevano loro. Con gentilezza e
rispetto decidevano per te. E tu obbedivi. Li ricordo con grande affetto e
riconoscenza”» (Marco Neirotti)
• «Io, fondamentalista?... Non mi È facile parlare di me. Ma il linguaggio della coerenza e del rigore, prima di
tutto con se stessi, e l’impegno e la fatica e le rinunzie..., hanno altri nomi. Faccio il magistrato che
applica la legge, le mie convinzioni intellettuali, filosofiche, restano fuori
dal mio lavoro» • «“Il terrorista si pentiva sulla base di una crisi politica, per il fallimento dei
suoi progetti rivoluzionari. Si rendeva conto che aveva praticato una violenza
armata in nome di niente, capiva che la sua era stata soltanto una feroce
illusione. In lui c’era una duplice molla: certo!, l’interesse personale o, meglio, una prospettiva di interesse personale; ma anche
un profondo convincimento ideologico, l’accertamento di una sconfitta irreversibile”. E il pentito di mafia? “Anche qui tanti casi diversi. C’È l’interesse, e c’È la crisi individuale: ma la crisi del mafioso non È ideologica, È una crisi di potere. Prendiamo crisi e interesse come due poli fra cui corrono
tante sfumature: ciascun pentito va a collocarsi dentro quell’arco. Nel pentito di mafia, l’interesse personale È di sicuro prevalente. Ma c’È altro, magari di radice psicologica... Era un uomo potente, viveva la sua
latitanza nel territorio con tranquillità e benessere: se andava in galera, era un uomo che comandava anche lì. Dopo le stragi di Falcone e Borsellino, con il famoso 41 bis, il rigore del
carcere provoca uno scarto. Cambia l’atteggiamento dello Stato, il quale con una legge dice: voglio combattere la
mafia; ma per conoscere la sua mentalità e i suoi segreti; se tu me li riveli, vieni incontro agli interessi generali e
io ti compenso con benefici, con sconti di pena eccetera. A quel punto, crisi
di potere e prospettiva di benefici, determinarono la massa di pentimenti”» (Enzo Siciliano)
• «Il riformista, il quotidiano diretto da Antonio Polito, non gli aveva
risparmiato aspre critiche: il casellismo consiste in “una lunga serie di processi di mafia sistematicamente smontati in sede
dibattimentale e, dunque, l’ex procuratore di Palermo non È adatto a guidare la Direzione nazionale antimafia”. Il dibattito sugli anni di Caselli a Palermo, sui processi all’ala militare della mafia conclusi con “centinaia di ergastoli” e su quelli ai colletti bianchi di Cosa nostra sfociati anche in assoluzioni
per “insufficienza di prove”» (Dino Martirano)
• «Debbo confessare che soffro di una strana sindrome: mi sento come Enzo Biagi.
Straparlo? Forse. Ma quel che si È attivato contro di me per impedirmi di concorrere alla Procura nazionale
antimafia, a colpi di decreti legge ed emendamenti escogitati apposta per
colpirmi personalmente (come il relatore, senatore Bobbio, ha candidamente
confessato), non È mai successo nella storia della Repubblica. E mi ricorda proprio Enzo Biagi,
licenziato - dicono le cronache - con un decreto “bulgaro”»
• Tifa per il Torino: «Mio padre aveva un amico comunista, operaio come lui, uno che girava con l’Unità in tasca quando una certa connotazione era sgradita a molti, era per molti
pesante. È lui che mi ha portato a vedere le prime partite dei granata, È lui che mi ha fatto diventare del Toro: perché vedendo lui, tifosissimo, associavo l’idea della squadra in quei calcisticamente difficili suoi anni Cinquanta alla
lotta per sopravvivere, alla voglia e spesso alla necessità di essere contro, allo spirito comunque trasgressivo. Lui era un uomo forte, un
ribelle ed era del Toro, tutto collimava bene»
• «Ricordo il 3-2 in un derby, rimontando due gol: avevo con me il figlio piccolo,
l’ho buttato in aria, pare che la scena si sia vista in televisione, mancano le
immagini per far sapere se l’ho poi raccolto io o qualcuno che ha avuto pietà della mia scatenata felice follia».