Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
CARNEVALE
Corrado Licata (Agrigento) 9 maggio 1930. Giudice («ammazzasentenze»). In magistratura dal 53 (primo in tutti i concorsi). Presidente della Prima
sezione della Cassazione. Il 29 giugno 2001 è stato condannato a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. In
seguito alla condanna è stato costretto ad andare in pensione. Nel 2002 la Cassazione ha annullato la
sentenza di condanna a 6 anni senza rinvio stabilendo che «il fatto non sussiste». Il 21 marzo 2004 ha presentato domanda al Csm per tornare in magistratura
avvalendosi della legge ribattezzata con il suo nome (stabilisce il diritto di
reintegro di tutti i dipendenti pubblici, magistrati compresi, che siano stati
sospesi o che siano andati anticipatamente in pensione in conseguenza di un
procedimento penale che si è concluso con un’assoluzione). Il Csm ha respinto la richiesta. Il 14 luglio 2005 la Corte
Costituzionale gli ha dato ragione. Il 28 settembre 2005 la IV commissione del
consiglio ha bocciato (3 voti contro 2) la sua istanza. Il 23 aprile 2006 il
Tar del Lazio gli ha dato nuovamente ragione rispedendo la questione al Csm
• «Gli chiesero una volta un paio di giornalisti un po’ irriverenti: presidente, quante sentenze ha “ammazzato”? Lui, infastidito, non rispose. Erano allora quasi 500. Aveva già annullato gli ergastoli contro i Greco dei Ciaculli per l’omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici, aveva ordinato un nuovo
processo per la strage del rapido 904 Napoli-Milano, aveva assolto Licio Gelli
dall’accusa di sovversione e banda armata, aveva graziato i tre sicari del capitano
dei carabinieri Emanuele Basile, aveva azzerato 134 condanne al carcere a vita
per Mommo Piromalli e per i suoi scagnozzi della ’ndrangheta, aveva trasferito da Milano a Roma il procedimento sui fondi neri
dell’Iri. Gli chiesero ancora, qualche anno dopo: ce lo dica presidente, quante
sentenze ha “ammazzato”? Questa volta sibilò: “Per ammazzare qualcosa, bisogna che quel qualcosa sia vivo”. Siciliano. Di Licata, terra agrigentina. Corteggiatissimo da certi principi
del foro del Sud, temutissimo dai procuratori dei pool antimafia che tremavano
quando le loro istruttorie approdavano nella sua sezione. E venerato da alcuni
imputati dei maxiprocessi, come quello che quindici anni fa si celebrò a Palermo per volere di Giovanni Falcone. Per i soliti cavilli un bel numero di
boss però uscirono dall’Ucciardone prima della sentenza, era un pomeriggio di sole quando uno di loro
disse: “Per me Carnevale è un uomo giusto come Papa Giovanni”. Amato e odiato. Verbosissimo. E con una memoria formidabile. La leggenda
racconta che ricordi ogni parola che è dentro ogni sentenza che ha giudicato. Famoso è diventato alla fine del 1985, quando venne nominato presidente della prima
sezione penale della Suprema Corte di Cassazione. Famosissimo è diventato quando una microspia registrò cosa pensava del suo collega saltato in aria a Capaci il 23 maggio del 1992: “Per me Falcone è un cretino, io i morti li rispetto ma certi morti no...”. Fu più o meno in quei mesi - quando nel salotto della sua casa alcuni agenti della Dia
avevano nascosto una “cimice” - che cominciarono i suoi guai giudiziari veri. Dopo le stragi arrivarono
pentiti di mafia (Gaspare Mutolo e Leonardo Messina soprattutto) che parlavano
di lui e che dicevano che “era la massima garanzia” per i picciotti sotto processo, che alla Cassazione c’era una sorta di “mercato” dove si compravano e si vendevano sentenze di assoluzione. A Palermo aprirono
un procedimento contro il collega che detestava i “giudici sceriffi”, quasi in contemporanea con l’inchiesta su Giulio Andreotti. Era il marzo del 1993. Nel registro degli
indagati per concorso in associazione mafiosa finì anche l’eccellentissima toga che andava ripetendo a tutti: “La Costituzione vuole il magistrato in toga e non in divisa, io sono un giudice
e mi rifiuto di essere un combattente anche contro la mafia”. è quell’indagine su Carnevale che fece scoprire ai magistrati di Palermo anche un vero e
proprio “partito” dentro le aule austere della Cassazione. Si difese attaccando il siciliano di
Licata, scatenato contro “i comunisti che vogliono una giustizia sommaria”, sparlò di alcuni suoi colleghi romani che disprezzava, non mollò mai neanche per un momento. Sussurrava in una delle sue chiacchierate captate
dalle microspie: “Passerà la bufera giudiziaria, passerà e ne uscirò indenne”» (Attilio Bolzoni).