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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

CAPPELLO

Maria Caltagirone (Catania) 1954. Terrorista, leader delle Brigate rosse. Condannata all’ergastolo tra l’altro per l’omicidio di Roberto Ruffilli (16 aprile 1988: due brigatisti bussano a casa di
Ruffilli a Forlì, quando apre lo spingono nello studio, lo fanno mettere in ginocchio, lo
costringono a «confessare», quindi gli sparano tre colpi in testa. Ruffilli, importante costituzionalista
dell’entourage di De Mita, viveva solo con la zia. L’altro terrorista assassino era il marito di Maria Cappello, Fabio Ravalli)
• «Potremmo definirla la musa delle nuove Brigate rosse-Partito Comunista
Combattente. Si chiama Maria Cappello, ha 49 anni, si trova nel carcere di
Latina dal settembre del 1988 ed è considerata la regina degli irriducibili. Secondo gli inquirenti, che da anni
la tengono sotto osservazione per capire meglio il rapporto fra i brigatisti
detenuti e quelli in attività, è a lei (o meglio ai documenti da lei elaborati e concertati con i suoi compagni)
che si ispirano le analisi delle nuove Brigate rosse sul conflitto sociale, la
lotta antimperialista e la ristrutturazione (da impedire) del mercato del
lavoro. […] Alla metà degli anni Ottanta non ha esitato ad abbandonare suo figlio che allora aveva 8
anni per entrare in clandestinità. Prima di allora, era solo una militante dell’estrema sinistra, operaia in una fabbrica tessile di Prato, figlia di immigrati
calabresi. Nata a Caltagirone, arriva in Toscana nel 1964. Ha un padre,
Giorgio, che è venditore ambulante e che le promette un mondo piccino-piccino: un banco al
mercato tutto suo. Lei rifiuta e sposa la lotta di classe. Agli inizi degli
anni Settanta conosce Fabio Ravalli, che dall’età di 16 anni si dedica a furti e rapine. Lui ha una madre vedova e sette
fratelli. Entra ed esce dalla galera e in carcere entra a far parte delle
Brigate Rosse. I suoi ex compagni lo ricordano come una figura di secondo
grado, che faceva analisi politiche un po’ astratte. Se ne stava sempre sdraiato in cella a dormire e indossava grandi
mutande. Per questo è stato soprannominato il “terrorista sleeper”. “Era un botolo un po’ miope, sbrindellato, che aveva molte paranoie e litigava con la sua fidanzata,
un’operaia sveglia e intelligente che lo incalzava a prendere posizioni più nette” ricorda un suo ex compagno con un’immagine per niente generosa. Durante la rivolta dell’Asinara, nel 1979, Fabio Ravalli fu più umano degli altri: se la fece addosso per la paura delle botte e dei gas
lacrimogeni e rimase nascosto quasi tutto il tempo. Lei invece era fuori,
libera e incensurata, e attraversava l’Italia per seguire il compagno detenuto nelle carceri speciali, litigando con
gli agenti che cercavano di ostacolare ogni contatto affettivo coi terroristi
rossi. Faceva parte dei comitati di familiari dei prigionieri politici e andava
in giro con borse piene di fichi d’india di cui era ghiotta e che mangiava in continuazione senza timore delle
spine. Animava le proteste contro gli agenti, si portava dietro il figlio di
pochi mesi e sfidava anche il maschilismo dei brigatisti in carcere. Secondo
gli inquirenti è lei che in questo periodo costruisce l’assetto politico-terroristico della coppia, che ancora oggi mantiene a distanza
un rapporto simbiotico. Poi Fabio Ravalli, che intanto Maria ha sposato in
carcere, lascia la galera. Agli inizi degli anni Ottanta lavorano entrambi in
fabbrica, dove sono molto attivi nella lotta sindacale. Nel 1984 si licenziano.
Da tempo sono in contatto con la brigata eversiva Luca Mantini. Dopo la rapina
all’ufficio postale di Prato, lui entra in clandestinità e lei viene arrestata. Rimane in cella un anno e rilasciata per decorrenza dei
termini di custodia cautelare. Nel 1985 anche lei diventa un’irregolare: una professionista della rivoluzione. Affida suo figlio alle cure
della nonna, sparisce: nome di battaglia Anna. Fabio e Maria vengono
riarrestati a Roma nel settembre del 1988, nel covo di via della Marranella,
dove fra armi, proclami di rivendicazione e documenti falsi i carabinieri
trovano anche uno scritto importante, un’analisi sul mercato del lavoro, redatto dalla Cappello: Relazione sull’andamento del lavoro. Successivamente verranno condannati a più ergastoli per aver ideato e compiuto vari attentati terroristici: fra i più significativi gli omicidi del senatore democristiano e il sindaco di Firenze
Lando Conti. Fin qui la sua biografia ufficiale, che si ferma alla fine degli
anni Ottanta, quando la penultima generazione delle Brigate rosse finisce in
carcere. Il resto della sua vita è contenuto nei faldoni delle autorità giudiziarie che dopo l’omicidio di Massimo D’Antona indagano sulle nuove Brigate Rosse e nelle osservazioni dei suoi
carcerieri che fra Trani e Latina seguono con attenzione la vita quotidiana
degli irriducibili, sospettati di aver avuto rapporti coi brigatisti in attività. Oggi Maria Cappello è una cinquantenne esile, né bella né brutta, con una leggera peluria intorno alle labbra, e gli occhiali. Ha sempre
una sola espressione, seria, e poca inclinazione al dialogo. è lei che tesse le fila del ristretto gruppo di irriducibili, disseminati fra
Trani, Latina e Biella. Se fuori non ci fossero stati nuovi omicidi,
assomiglierebbe più al leader di una setta religiosa. è stata lei che ha inventato uno strano gioco degli scacchi per poter sfuggire
alla censura delle lettere che fanno la spola fra Trani e Latina e che fa
impazzire gli inquirenti. “All’inizio sembrava solo un gioco - ha spiegato un operatore penitenziario - C’erano le caselle tracciate su dei fogli e una volta alla settimana qualcuno
faceva una mossa che veniva inviata via lettera. Poi pedoni, alfieri, re e
regina sono stati inseriti in commenti politici che riguardavano questioni di ‘attualità’: gli omicidi di Biagi e D’Antona, le riforme del mercato del lavoro, le analisi sui conflitti sociali,
politici e internazionali”. è stata lei che in una lettera al marito ha dato un consiglio, un po’ imperativo: “Devi fare una partita a scacchi”. Così è iniziata una sfida infinita che non è mai arrivata allo scacco matto. Pedoni e torri sono sempre andati avanti e
indietro, in diagonale o in orizzontale in un estenuante gioco apparentemente
rivolto ai compagni in cella ma sicuramente utilizzato per inviare messaggi
criptici, difficilmente traducibili all’esterno, in quel mondo per loro pieno di nemici con cui si confrontano solo
attraverso rivendicazioni o un ottuso silenzio. “Muovi il Re e non farti consigliare dai compagni”, ha scritto una volta da Latina. Oppure ha fatto commenti che dicono tutto o
niente: “Dopo la vittoria, pagheremo la cena a tutti” ha scritto pochi mesi fa Maria a suo marito Fabio. La regina però ha continuato a muovere i suoi pedoni. Infatti è lei che, in occasione di grandi eventi, invia strani regali: l’ultimo, poco dopo la sparatoria del marzo scorso, in cui è morto Mario Galesi ed è stata arrestata Desdemona Lioce. Dal carcere di Latina è arrivato un dono per il compleanno di un detenuto brigatista. Un copricapo
arabo, di cotone, il taghia. Nella lettera di accompagnamento c’era scritto: “Mi raccomando, prima di lavarlo, attieniti alle istruzioni e non permettere
nessun lavaggio”. Poi ha inviato una cartolina a Desdemona Lioce con un semplice messaggio: “sii forte”. Scritta con caratteri minuziosi e ordinati, formali e freddi che secondo i
grafologi indicano una personalità dura e spietata e infine è stata ancora lei ad avere l’idea di inviare una corona di fiori al funerale di Mario Galesi morto durante la
sparatoria sul treno diretto ad Arezzo. Una volta all’anno Maria Cappello, si reca nel carcere di Trani per i colloqui con suo marito.
Un rapporto fortissimo, coltivato a distanza con lettere e telefonate, parole
affettuose, gesti teneri, assiduo interessamento sulle condizioni di salute.
Lui cerca conforto in lei quando i suoi compagni lo rimproverano: “M’hanno cazziato”, le ha scritto. E lei cerca rifugio in lui quando ha problemi di salute: “La ginecologa ha sospeso le visite”, gli racconta. Sono questi gli unici momenti in cui, secondo i loro carcerieri,
i coniugi Ravallo si lasciano scappare un sorriso e la loro maschera sembra
sciogliersi, dietro l’ombra della normalità. Eppure nella biografia carceraria di Maria Cappello gli affetti appartengono a
un universo con cui tenere le distanze, ovviamente subordinato alla lotta per
la rivoluzione. Del loro figlio Edoardo, abbandonato negli anni Ottanta prima
di entrare in clandestinità, e della sua crescita, ci sono poche tracce: quelle registrate dagli inquirenti
che hanno indagato sull’omicidio Ruffilli. Allora mamma e papà, impegnati 24 ore su 24 a fare pedinamenti, scrivere documenti e individuare il
cuore dello Stato da colpire, ne parlavano con affetto, come genitori che hanno
dovuto partire improvvisamente per un lungo viaggio e si preoccupano del
destino di chi è rimasto a casa. Poi, finiti entrambi in carcere, Edoardo è uscito dalla loro vita. Finché, qualche anno fa, ha ripreso i contatti e ha iniziato ad andare a Latina per
brevi e freddi colloqui con sua madre. Edoardo le parla del suo lavoro nella
cooperativa di riciclaggio della spazzatura e dei suoi viaggi nel Terzo mondo,
lei annuisce in silenzio. Nelle lettere al marito però non parla mai di questo ventottenne, che non ha ancora compreso la scelta
criminale dei suoi genitori. Nel carcere di Latina c’è una foto di gruppo delle detenute politiche, scattata sei anni fa da un agente
su richiesta della stessa Cappello, che forse temeva una futura disgregazione
del gruppo. Molte infatti sono state scarcerate. Alcune hanno finto un
ravvedimento per lasciare il carcere. Lei è rimasta, in compagnia di alcune irriducibili, sei in tutto. Come nelle foto
segnaletiche ha un’espressione ruvida. Dopo gli attentati di D’Antona e di Biagi, a Latina c’è stata una piccola festa. Non è stata stappata una bottiglia di vino ma l’applauso sì: quello c’è stato ed è partito proprio da lei. Gli operatori penitenziari la definiscono gentile, ma
cattiva d’animo. Priva di emozioni. Suo marito invece è un uomo rude, privo di cultura, estremamente dogmatico, un po’ sciatto, silenzioso, che come tutti abbassa lo sguardo ogni volta che intravede
un agente. Traduce documenti da giornali di movimento, inglesi e spagnoli.
Nella sua cella conserva tutto: cacciaviti e mollette, mozziconi di sigarette;
pentole e bottiglie, usate per distillare artigianalmente di nascosto il
liquore da condividere coi suoi compagni, accendini e penne bic rosse (“Adesso le debbo centellinare” ha scritto a sua moglie). Nella cella di Maria invece tutto è in ordine: libri di teoria marxista e lenzuola profumate. Sia gli inquirenti
che hanno indagato su di lei in relazione agli omicidi Lando Conti e Ruffilli,
sia quelli che hanno scritto l’ordine di custodia cautelare nei confronti degli irriducibili dopo aver scoperto
la bozza di rivendicazione probabilmente scritta prima dell’omicidio D’Antona, sono d’accordo: Maria Cappello non è un soldato della rivoluzione, ma una regista della lotta armata. Anche se non
ha mai parlato — tranne durante il processo Ruffilli quando al pubblico ministero Roberto
Mescolini ha ammesso di aver scritto i documenti di rivendicazione — è ormai assodato che lei ha un ruolo determinante all’interno degli irriducibili e non solo. è lei la potenziale interlocutrice di Desdemona Lioce, che si ispira ai suoi
documenti quando scrive proclami. E anche riguardo all’ultimo documento degli irriducibili, letto durante un processo poche settimane
fa, c’è la sua mano, quella della regina degli scacchi» (Cristina Giudici, 25 ottobre 2003).