Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
CAPELLO
Fabio Pieris (Gorizia) 18 giugno 1946. Ex calciatore. Allenatore. «Se anche quest’anno si risolvesse tutto con un duello fra noi e il Milan, io non mi annoierei
affatto. Anzi, se non ci fosse neanche il Milan sarebbe meglio ancora».
CALCIATORE Ha giocato con Spal, Roma, Juventus, Milan. Con la Juventus ha vinto tre
scudetti (72, 73, 75), con il Milan uno (79, quello della Stella) • «Mio padre era maestro elementare e giocava nel Pieris, il più piccolo paese (1200 abitanti) mai arrivato in serie C. Faceva l’allenatore, puliva gli spogliatoi, tagliava l’erba del campo: passione pura. La guerra l’abbiamo sempre avuta vicino, essendo a 7 km dal confine. Da piccolo si parlava
spesso della possibilità di finire dall’altra parte. Mio padre è stato prigioniero nei campi di concentramento tedeschi, ne cambiò 6 o 7 e si salvò per il rotto della cuffia. I suoi racconti sono ricordi indelebili»
• «Pieris. Che vuol dire Pietre. Un paese di 1200 abitanti che ha dato 15 giocatori
alla serie A. Mio padre Guerrino, maestro elementare, insegnava calcio. Stop e
tiro, stop e tiro. Pieris era il campo oltre la strada, la caccia subacquea
nell’Isonzo con l’elastico e le stecche degli ombrelli, qualche cavedano si tirava su, ma io e il
mio amico Berto li chiamavamo squali. Pieris è il ricordo della bora, che veniva forte specie a febbraio, e allora si cercava
il riparo dell’argine, sempre con le fionde. A 14 anni sono partito. Ferrara. Brutto cambio,
dal vento alla nebbia fitta, al caldo senza un filo d’aria. Città bellissima, e non solo perché ho conosciuto mia moglie Laura. Prendevamo lo stesso autobus, lei andava alle
magistrali, io studiavo da geometra. Un anno, il primo, vivevo nel pensionato
della Spal, poi a casa di due sorelle zitelle che cucinavano divinamente. In
quegli anni è nata l’amicizia con Edy Reja, che dura ancora. Ma è stato un passaggio traumatico, a casa mia non c’era il telefono, ai miei scrivevo due lettere a settimana. Quando mio padre
capiva che ero giù, veniva a trovarmi. C’erano state altre richieste. Una del Marzotto in B, lo allenava Vycpalek. Quando
mio padre aveva già dato la sua parola a Paolo Mazza, presidente della Spal, s’era fatto sotto il Milan, con Gipo Viani. Viani diceva che avevo un compasso al
posto dei piedi, e offriva il doppio. Ma la parola è parola, si figuri a quei tempi. E per me quello che decideva mio padre andava
bene. Ricordo di quando avevo quattro anni, andammo in gita a Duino, lui mi
aiutò a salire sulla scogliera e poi scese in acqua e mi disse di buttarmi. Saranno
stati dieci metri e mi buttai, anche se come nuotatore ero scarso» (da un’intervista di Gianni Mura)
• «Cresce nella Spal di Paolo Mazza e arriva giovanissimo alla Roma. Carrello
basso, impettito e un po’ compassato, organizza il centrocampo. Le virtù di regista gli valgono l’appellativo di “geometra”. Italo Allodi (Juventus) lo preleva nel 1970, all’alba del ciclo bonipertiano. Capello è un radar, abile nello snellire il traffico, lesto nell’anticiparne lo sviluppo» (La Stampa) • «Nella Juventus era l’allenatore in campo, con la maglia numero 10, nella prima metà degli anni Settanta. Elegante, testa alta, mascella prominente, busto eretto
sul baricentro basso, visione di gioco da autentico play-maker. Piaceva ai
tecnici che l’hanno avuto alle loro dipendenze, da Armando Picchi a Cestmir Vycpalek, a
Carletto Parola, tutti scomparsi. Geometra fuori e dentro il campo, forte
personalità. Che esercitava anche nello spogliatoio. Dettava ordini ai compagni: al giovane
Bobby-gol Bettega come a “nonno” Altafini, all’estroso tedesco-napoletano Helmut Haller come al fantasioso “barone” Franco Causio, a Billy Salvadore e Furia Furino. Li pilotava con le parole e
con i fatti. Un regista, a tutto campo. Disputò 239 partite (165 in campionato, 27 reti, 35 in coppa Italia, 8 reti, e 39 in
Europa, 6 reti) e conquistò tre scudetti. Senza mai subire una sconfitta, mancò di un soffio la coppa delle Fiere, l’attuale Uefa, poi perse a Belgrado, con gli olandesi dell’Ajax, la finale di coppa dei Campioni e all’Olimpico quella Intercontinentale con gli argentini dell’Independiente di Avellaneda. Figlio del maestro elementare Guerrino (terzino
dilettante e allenatore del Pieris, cittadina in provincia di Gorizia) e della
sorella di Tortul, ex terzino della Sampdoria, Fabio si era appassionato al
calcio sin da bambino. L’esordio in serie A neanche diciottenne con la Spal, a ventuno l’approdo alla Roma dove Oronzo Pugliese prima e Helenio Herrera poi l’avevano valorizzato, consentendogli di vincere una Coppa Italia. Un matrimonio
tra alti e bassi, invece, quello tra Capello e la Signora avvenuto nell’estate del 1970. Il presidente Giampiero Boniperti e il general manager Italo
Allodi l’avevano ingaggiato con il difensore Luciano Spinosi e il giovane attaccante
Fausto Landini, scambiandoli con Bob Vieri, papà di Christian, Luis Del Sol, Gianfranco Zigoni, un giovane della Primavera e un
pacchetto di milioni. Un’operazione di mercato che fece scalpore: la Juve aprì un ciclo. A Torino, Capello fece un salto di qualità e venne convocato da Ferruccio Valcareggi in Nazionale. Fu coinvolto nel
disastroso Mondiale in Germania del 74 ma rientrò, a scoppio ritardato, nei programmi di rifondazione del nuovo ct Fulvio
Bernardini. A rilanciarlo fu soprattutto Enzo Bearzot, friulano come Capello.
Un brutto infortunio a Mosca, nell’amichevole con l’Urss, lo costrinse a un intervento chirgico che compromise la prima parte della
sua ultima stagione juventina, quella che vide il Toro di Gigi Radice strappare
lo scudetto a Parola. Ci furono veleni all’interno della squadra, in primis il caso Anastasi-Parola. Pagò il tecnico, che non venne confermato (Boniperti scelse la linea verde e assunse
Trapattoni), fecero le valigie anche Anastasi, capitano in disgrazia, e
Capello. Fatale fu l’intervista che Fabio rilasciò a Washington dopo la prima partita del Bicentenario contro la Selezione degli
Usa che schierava Pelè, Giorgio Chinaglia, Bobby Moore. Vinse l’Italia 4-0, Fabio aprì le marcature. A fine gara, negli spogliatoi del Robert Kennedy Stadium, Capello
disse che in Nazionale giocava meglio perchè trovava più collaborazione. Frase che scatenò la reazione di Beppe Furino e di altri juventini rimasti in Italia. Fu la
goccia che fece traboccare un vaso già colmo. La società cedette Capello al Milan in cambio di Romeo Benetti, cavallo di ritorno. A
Torino aveva imparato l’arte di vincere» (Bruno Bernardi)
• L’approdo al Milan (1976) appena in tempo per conquistare il titolo della stella
rossonera (dieci scudetti). In Nazionale, 32 presenze e 8 reti. Storica quella
che, il 14 novembre 1973, firma la prima vittoria degli azzurri a Wembley
contro gli inglesi (La Stampa).
ALLENATORE Dal 2004-2005 allenatore della Juventus (sulla cui panchina, aveva fatto sapere,
non sarebbe mai andato). Da allenatore ha vinto sette scudetti (Milan 92, 93,
94, 96, Roma 2001, Juventus 2005 e 2006), una Champions League (Milan 94) • Tutta la gavetta al Milan: due anni agli Allievi, due alla Berretti, due alla
Primavera. Il salto in prima squadra, dopo Sacchi, sembra un azzardo di
Berlusconi. Invece vince tre scudetti di fila e poi arriva primo ancora nel
campionato 1995-1996. Passa quindi al Real Madrid e vince subito il campionato
(«...una galoppata irresistibile, la costruzione di un gruppo fantastico fondato
su quella che ancora chiamano la “Quinta di don Fabio”: Hierro, Roberto Carlos, Raul, Guti e Del Bosque... »), ma a fine stagione, poiché il Milan non va bene, accetta di riprendere in mano la squadra di Berlusconi. A
metà anno, però, Galliani gli offre un contratto a rendimento e Capello rifiuta. Sta quindi un
anno fermo («l’unico in cui mi sia venuta la pressione alta») e nel 1999 viene ingaggiato dalla Roma, che ha appena licenziato Zeman. Vince
lo scudetto nel 2001, anche grazie ai rinforzi comprati da Sensi (Batistuta,
Samuel e soprattutto Emerson) e resta poi alla Roma fino al 2004 quando si
viene a sapere - con scandalo della tifoseria - che s’è accordato con Moggi ed è passato alla Juve, proprio la squadra, da lui definita in passato «di gesuiti», alla quale - aveva detto - non sarebbe andato mai. Seguono rottura con Totti
(accompagnata da fior di polemiche), follie di Cassano che vuole a tutti i
costi raggiungerlo a Torino e gli chiede pubblicamente di prenderlo con sé e un’inimicizia irriducibile col pubblico giallorosso. Alla Juve vince i due scudetti
del 2005 e del 2006
• Severo: puntualità agli allenamenti; puntualità a pranzo e a cena; niente telefonini nello spogliatoio; niente telefonini sul
pullman; niente telefonini a pranzo e a cena; vietato leggere giornali negli
spogliatoi; no al fumo; divisa sempre in ordine; controllo peso ogni giorno; in
ritiro niente compagne (il decalogo stilato da Capello per i giocatori della
Juve).
«Fabio non è perfezionista, però ci sono alcune cose che lo mandano in bestia. Il giocatore che perde il pallone
e non rientra immediatamente, lasciando in difficoltà i compagni, quello che disattende le indicazioni. Lui pretende la massima
applicazione. Capita che i ragazzi abbiano una reazione negativa quando vengono
ripresi, più o meno plateale, ma lui capisce. Non è un tipo rancoroso o vendicativo. Ha questo modo di porsi, molto autoritario,
anche con noi dello staff. Dopo un po’ ti abitui. Quando si lavora non dobbiamo pensare ad altro, questo ci dice
sempre» (Giancarlo Corradini, suo vice)
• Famoso per praticità: «Per me, il divertimento è solo la vittoria e sono felice che in Inghilterra comandi il Chelsea: tutti
arroccati in difesa e poi via in contropiede. Tutto il resto è filosofia» (Roberto Beccantini) «Alle squadre fru-fru, tipo Barcellona, preferisco quelle toste, tipo Chelsea»; «Tutto sta a vedere se si vuole vedere bel calcio o solo vincere: in quest’ultimo caso Capello è un’opzione molto buona. Ma è altrettanto chiara la sua mancanza di idee» (Valdano); «Ormai in tutto il mondo si gioca con un solo modulo, il 9-1. Se va di moda dare
i numeri, diamoli pure, però ora si attacca tutti e ci si aiuta tutti, tranne un attaccante e il portiere» (a Luca Curino). «Sono uno che pensa solo a tagliare il traguardo: il resto è poesia» (a Ernesto Menicucci); «Un allenatore è tanto se conta il 15-20 per cento. Mica si vince con gli schemi»; «Quando si tratta con le persone, bisogna sapere tante cose. Ad esempio, le
origini di ciascuno: Cassano che viene da Bari vecchia è diverso da Ibrahimovic che è svedese con sangue slavo. La genealogia conta, io studio anche quella» (Emanuele Gamba); «Sono per gli specialisti: undici specialisti batteranno sempre undici poliedrici»; «La differenza tra lui e gli altri sta nel progetto. Serve un batterista? Gli
comprano un batterista. Vuole un contrabbasso? La società provvede. Altrove, e neppure molto lontano da Torino, se chiedi un chitarrista
spesso ti portano un pianista ...» (Alberto Zaccheroni)
• Sposato con Laura Ghisi. Ha un figlio avvocato, Filippo, associato dello studio
Guardamagna di Milano (2005), che si occupa spesso di contenzioso sportivo, ma
non fa il procuratore.
FRASI «Il gregge è una cosa, il gruppo un’altra» • Perché nel 2008 si ritirerà? «Sono stanco, e sto invecchiando». Ce ne sono di più vecchi, veramente. «Devo per forza battere anche questo record?» • «Non do molta confidenza. E non sento lo spirito di categoria. Sono un
individualista e vado per conto mio» • «è sempre il gruppo a individuare un leader, mai lui ad autoimporsi» • «Gli italiani non si stanno disamorando del calcio, stanno pensando a soluzioni
più comode. Forse stiamo diventando più pigri. Non si va più allo stadio perché è più facile stare davanti alla televisione, i bambini sono tutti più obesi e le persone non hanno più voglia di muoversi» • «Io lo dico sempre ai miei giocatori: siete giovani, siete aitanti, avete dei bei
fisici, certo. Non pensiate però che le veline vi corrano dietro per questi motivi. Il fatto è che a 25 anni non esiste nessuno al mondo così ricco come un calciatore affermato» • «Ho sempre voluto lasciare il pallone fuori dalla porta di casa. Se mia moglie o
i miei figli vogliono sapere qualcosa sulle partite si devono andare a comprare
il giornale, io non gliene parlo. E anche i miei amici più cari mi sono sempre fatto scrupolo di sceglierli fuori dal mondo del calcio:
Bruno Lorenzelli, il mio gallerista di fiducia, Gianni Caverzasio, che mi ha
fatto conoscere l’emozione delle montagne, Franco Torrani, manager d’impresa, il grande Ottavio Missoni, uomo di frontiera come me, lui dalmata io
friulano» (a Laura Laurenzi)
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COMMENTI Dicono che sia un allenatore da campionato più che da coppe: «Il signore degli scudetti stenta nelle gare ad eliminazione diretta (non ha mai
vinto la coppa Italia): non è un’opinione ma un dato di fatto. Considerando il periodo in cui si verificano
queste cadute e l’evidente calo fisico che le accompagna forse c’entra la preparazione. Le sue squadre sono programmate per partire forte,
prendere il vantaggio e difenderlo fino all’ultima fase. Quando arrivano i confronti europei decisivi non hanno più molto da spendere» (Giorgio Tosatti)
• «Si dice sempre: Capello è un allenatore di uomini, non di schemi. Non a caso le sue esperienze vincenti
al Milan e alla Roma arrivano subito dopo il licenziamento di due monumenti del
calcio anni Ottanta, ideologico fino all’ossessione: Sacchi e Zeman. Ugualmente, gli scontri di Capello con presidenti e
tifosi sono stati quasi sempre scontri sugli uomini più che sui moduli. Quelli, li ha usati tutti. Pragmatismo di scuola italiana,
questo sì. Con l’attenzione alla fase difensiva, il gioco sulle ali, il centrocampo solido, la
mezza allergia ai fantasisti, la mania di togliere una punta per un
centrocampista in caso di vantaggio.... Facile anche la critica: “Sono bravi tutti a vincere se si hanno i campioni”. Ma per l’appunto Berlusconi gli rimproverò sempre di non far giocare Savicevic. Lo spogliatoio del Real Madrid, si dice,
fece festa quando il mister se ne andò dopo solo una stagione, però con uno scudetto vinto. Gli stessi tifosi romanisti, dopo quattro stagioni e
uno scudetto, vantano un cahier de doleances lunghissimo che va dalla posizione
di Totti in campo (punta o trequartista?) all’impiego a singhiozzo di Montella, dalle preferenze per gli ultimi spompati
Batistuta, Del Vecchio, Candela. Si sa. La maschera preferita di Capello è quella dell’antipatico. è l’allenatore-manager che ancora urla come un pazzo anche quando la sua squadra
vince. Che odia, ricambiato, i giornalisti sportivi» (Alberto Piccinini)
POLITICA «Ho iniziato a interessarmi un po’ di politica a vent’anni, appena arrivato a Roma. C’era il 68, i cortei, tutto il resto. Avevo un amico socialista e facevo lunghe
chiacchierate con lui. Poi ho votato tanti partiti diversi: Psi, Pri, Dc per
tanti anni, poi Lega nord e Forza Italia. Berlusconi è stato grandissimo come imprenditore, cioè in una posizione dove poteva decidere tutto o quasi. In politica invece è un uomo con le mani legate. Ha dovuto accontentare troppa gente e non ha potuto
fare come voleva lui. Però lo voterò ancora» (Capello nel 2006) • La Spagna in sintesi? «Il calore e la creatività latina regolati da un ordine rigoroso. L’ordine che viene da Franco». Franco era un dittatore. «Ma ha lasciato in eredità l’ordine. In Spagna funziona tutto e funziona bene, ci sono educazione, pulizia,
rispetto e poca burocrazia. Dovremmo prendere esempio»
• «Io sono un sostenitore dei sindacati, apprezzo molto quello che hanno fatto per
l’emancipazione dei lavoratori sfruttati. Sono molto cattolico, questo sì, e non mi piace l’attuale legge sull’aborto. Mi piace invece papa Ratzinger: per me nella Chiesa c’era bisogno di una sterzatina tradizionalista. Sa, io sono uno che prega due
volte al giorno, al mattino e alla sera, dovunque mi trovi».
VIZI è molto colto, ama l’arte astratta («Il figurativo si fa da sempre e a me interessavano di più quelli che cercavano un altro modo, un altro linguaggio»), è un intenditore di vini. Ha paragonato un derby Roma Lazio a Broadway Boogie-Woogie di Mondrian. Della Serie A di Bonolis gli erano piaciute soprattutto le sedie vuote («Affascinanti. Ma leggo che le si vogliono riempire, la gente ama vedere il
pubblico»). A un giornalista ha detto di tenere sul comodino Il re, il saggio e il buffone, di Shafique Keshavjee, «la bellissima storia di un sovrano che indice un campionato delle religioni». Ama molto viaggiare, ma «non sono il tipo da villaggio turistico. Sarà banale, ma le Piramidi, viste 35 anni fa quando ancora il Cairo era lontano, mi
hanno lasciato senza fiato» • è superstizioso. Maurizio Crosetti ha riferito che, quando venne a Roma con la
Juve, i tifosi gli fecero trovare la panchina tappezzata di numeri 2, cifra che
lui detesta.