Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
CAIRO Alberto Ceva (Cuneo) 1954. Fisioterapista. Opera a Kabul. Sue corrispondenze dalla capitale pubblicate regolarmente da Repubblica e piene di delicatezza • «Ho studiato da avvocato
CAIRO Alberto Ceva (Cuneo) 1954. Fisioterapista. Opera a Kabul. Sue corrispondenze dalla capitale pubblicate regolarmente da Repubblica e piene di delicatezza • «Ho studiato da avvocato. Ma a 30 anni ho riscoperto una grande passione per la fisioterapia e così sono entrato nella Croce Rossa Internazionale. Nel 1988 sono arrivato a Kabul. Allora c’erano le truppe sovietiche e per convincerle a lasciarci aprire un centro medico assicurammo che avremmo curato anche i militari. Da allora sono stato l’unico occidentale a rimanere in questo Paese tanto a lungo» • «C’è chi l’ha proposto a Premio Nobel per la pace. Non c’è che dire, se lo meriterebbe davvero Alberto. Lo chiamano tutti così a Kabul, il nome basta e avanza. Sta scritto in rosso, in bell’evidenza sul camice bianco di un fisioterapista italiano che da anni ridà speranza a migliaia di afgani, maciullati nel corpo e distrutti nell’anima. Alto, magrissimo, capelli brizzolati e barba corta, Alberto Cairo ha un sorriso fanciullesco e un’aria mite sotto cui si nasconde un’autentica forza della natura. Quella che ogni giorno, dal 1990 in poi, nonostante le guerre, i bombardamenti e i cambi di regime, lo conduce all’ospedale della Croce Rossa Internazionale dove dirige il Progetto ortopedico che, oltre a Kabul, conta altri cinque centri nel resto dell’Afghanistan. Parla perfettamente il darì, la lingua simile al persiano che insieme al pashtun è la più diffusa a Kabul. Si rivolge per nome ad ognuno dei suoi ospiti, ne conosce le storie, i drammi, le speranze. Li assiste con una dedizione totale e un entusiasmo contagioso. Perché questo medico non si accontenta di ricostruire gli arti di chi è rimasto dilaniato da una mina o soffre di un grave handicap fisico ma tenta di ridare ai suoi pazienti il gusto di vivere, la sensazione di essere utili, la coscienza di una dignità» (Luigi Geninazzi) • «Angelo di Kabul? Non voglio soprannomi melensi».