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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

BRUSCA

Giovanni Palermo 20 maggio 1957. Mafioso. L’uomo che il 23 maggio del 92 azionò il telecomando che provocò la strage di Capaci in cui vennero uccisi Giovanni Falcone, la moglie e tre
agenti di scorta. Un mafioso sanguinario, uno dei boss più vicini a Totò Riina. Arrestato il 20 maggio del 96, ha cominciato a collaborare alcuni mesi
dopo. Detto ’u verru, il porco • «Ho una piccola cicatrice sul mignolo della mano destra: avevo poco più di vent’anni, mi trovavo a Napoli nella villa di Angelo Nuvoletta, punto di riferimento
dei corleonesi. Stavamo strangolando una persona che non ricordo più neanche come si chiamasse. A un tratto, la vittima riuscì a impugnare la pistola di Nuvoletta infilata sotto la cinghia dei pantaloni.
Partì un colpo che tagliò in due un dito di Nuvoletta e ferì anche me. Lo strangolammo lo stesso. Non l’ho mai nascosto: ho torturato persone per farle parlare, ho strangolato sia chi
rendeva la sua confessione sia chi restava muto, ho sciolto i corpi nell’acido, ho arrostito cadaveri sulle graticole. Non mi sono mai impressionato di
questi aspetti della mia attività. Per strangolare adoperavamo una cordicella di nylon molto sottile: due di noi
tenevano il malcapitato per le braccia, due per i piedi e uno, messo dietro,
tirava... Dopo una decina di minuti sopraggiungeva la morte. Come lo capivamo?
Perché i tessuti si allentavano e la persona si faceva la pipì e la cacca addosso... Dovevamo essere sicuri che fosse avvenuto il decesso.
Sarebbe stato rischiosissimo immergere nell’acido un corpo che avrebbe potuto ancora avere delle convulsioni, degli spasmi.
Qualche schizzo d’acido sarebbe stato micidiale per tutti i presenti. Occorrono 50 litri di acido
per ottenere la disintegrazione di un corpo in una media di tre ore»
• Il bambino Giuseppe Di Matteo, 11 anni, sequestrato dagli uomini di Brusca il
23 novembre 1993 mentre andava a Villabate al maneggio Altofonte dei Vitale,
venne strangolato nel gennaio 1996. Il suo cadavere fu poi sciolto nell’acido (l’operazione venne eseguita materialmente da Vincenzo Chiodo). Il padre, Mario
Santo Di Matteo, divenuto collaboratore della polizia, aveva raccontato tutto
sulla strage di Capaci. Durante la prigionia del figlio, Brusca gli aveva
mandato biglietti, foto e videocassette del ragazzo
• Giudice Fabio Marino: «Come li scioglievate i cadaveri?» Brusca: «Bastavano 50 litri di acido per ogni cadavere» Giudice: «Usavate mascherine, guanti?» Brusca: «Stavamo attenti, perché se uno tocca si può far male» Giudice: «E dove buttavate tutto?» Brusca: «Nella fognatura, dove capitava» Giudice: «È pentito per quello che ha fatto?» Brusca: «Davanti a Dio sì» Giudice: «Anche davanti alla Giustizia?» Brusca: «Davanti alla Corte sì»
• «Lo chiamavano “il porco”. E ne sparlavano sempre. Dicevano che era un codardo, un miserabile, che era
quello che era perché figlio di quel padre riverito come un califfo. Neanche quelli che si riunivano
nel casolare di contrada Dammusi, i più intimi, lo sopportavano. Andavano tutti là dopo avere scannato qualcuno e brindavano con lo champagne, solo casse di “Monsciandò”. Lo baciavano perché dovevano baciarlo, lo salutavano perché dovevano salutarlo. Ma non lo rispettavano. Troppe femmine. Troppe chiacchiere.
Troppe ostentazioni. Giovannino neanche sembrava uno dei Brusca, dinastia
eletta di San Giuseppe Jato, capitale di mafia di un pezzo di Sicilia che ha
sempre avuto qualcosa di indicibile. Non somigliava in niente al vecchio
Bernardo, quel pecoraio che puzzava come un caprone ma che aveva il cervello più fino di tutti nella Cosa Nostra sanguinante dei Corleonesi. Però “il porco” comandava. Eccome se comandava. Pure a Palermo. Comandava e faceva uccidere.
Uomini, donne, vecchi, bambini. Tutti quelli che si mettevano contro lo “zio” Totò o contro lo “zio” VicÈ, contro quei signorotti di campagna che tra gli anni Ottanta e Novanta avevano
in pugno l’isola. E Giovannino Brusca era un protetto di corte. Di più: era quello che in siciliano si dice un “canazzu da catena”, loro lo scioglievano e lui fedele ubbidiva. Poi lo riattaccavano. E intanto
lui saliva, saliva sempre più in alto in quella Cupola di paranoia che aveva voluto Salvatore Riina. Era
diventato un boss. Il più spietato. Ancora più carogna dei “contadini” nati ai piedi della Rocca Busambra. Un animale. Quando poi decise di pentirsi,
Giovannino si autoccusò anche di cento e passa omicidi. Ma forse ne dimenticò qualcuno. E poi ha aspettato, ha aspettato con pazienza un po’ di libertà. Dopo otto anni, È arrivata anche per lui. Era la fine di un bella giornata di primavera quando lo
presero. Il mese era maggio, l’anno il 1996. Di notte, in una villa in mezzo alla campagna senza alberi di
Agrigento, il letto asciutto di un fiume, le dune di sabbia bianca come la neve
di San Leone. Era in dormiveglia. E aveva accanto sua moglie Cristiana. Il loro
bambino Davide che strillava nell’altra stanza, il fratello Enzo con la sua donna al piano di sotto. C’era un salone pieno di valigie ancora aperte. Dentro c’erano vestiti firmati, orologi d’oro, preziosi, soldi. Gli sbirri lo stanarono con le “cimici” e probabilmente anche con uno spione. Ma se ne seppe poco di quella cattura.
Dissero che lo ammanettarono mentre stava vedendo il film sulla vita e sulla
morte di Giovanni Falcone, l’uomo che proprio Giovannino aveva ucciso. Probabilmente una balla rifilata a una
stampa sempre assetata di colpi di scena, particolare davvero ininfluente
rispetto a quello che accadde poi. I colpi di scena veri li riservò lui. Cominciò con le menzogne. Trascinando in acque torbide galantuomini, mescolando ricordi,
dicendo e non dicendo. Dentro e intorno alle sue confessioni apparirono all’improvviso personaggi sinistri, avvocati, medici, commercialisti, una borghesia
palermitana infetta che tentò di sfuggire alle chiamate del figlio di don Bernardo raccontando e ritrattando,
confondendo, depistando. Per un anno Giovannino Brusca rimase un oggetto
misterioso. Poi lo status di pentito. Era attendibile, decretarono procuratori
e giudici. Con quel timbro ufficiale di credibilità, in molti cominciarono a tremare» (Attilio Bolzoni).