Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
BERTINOTTI
Fausto Milano 22 marzo 1940. Politico. Presidente della Camera (dopo le elezioni del
9-10 aprile 2006). «Tra gli indiani e i cowboy io sono sempre stato dalla parte degli indiani».
VITA Diploma di perito industriale, iscritto al Partito socialista dal 64, nel 69
membro della segreteria regionale della Cgil, nel 71 entra nel Partito
Comunista Italiano, nell’85 viene designato dalla segreteria nazionale della Cgil al dipartimento dell’Industria e successivamente a quello del Mercato del lavoro. Dal 91 leader di
Essere sindacato. Dopo la svolta della Bolognina aderisce al Pds, ma nel 93
entra nel partito di Rifondazione comunista e nel 94 ne diventa leader. Lo
stesso anno viene eletto per la prima volta deputato. È stato segretario di Rifondazione fino al 7 maggio 2006, quando, eletto
presidente della Camera, È stato sostituito da Franco Giordano
• Il padre era ferroviere, la madre casalinga. «Il papà che scarica carbone e poi diventa fuochista e ancora il papà ferroviere che porta a casa mattonelle di carbone per la stufa e trascina a
fatica il carretto. Un papà operaio, caso rarissimo nella storia dei dirigenti comunisti della sua
generazione. Un papà, perso nel 1961, al quale ancora rivolge il pensiero prima di ogni scelta
politica» (Cesare Fiumi) • «Mio padre mi può venire in mente sia in un momento di successo che in un momento impegnativo. Ma
per dirgli: come vedi noi siamo sempre quelli, siamo sempre dalla stessa parte» • «Se penso a mio padre lo rivedo nel rito della vestizione, il giorno delle
elezioni: l’abito buono grigio scuro, le scarpe nere, la camicia bianca immacolata, il
fiocco di seta nera alla LavalliÈre, e il cappello nero a larghe falde, al posto del basco di ogni giorno» • «“Hanno fucilato Mussolini”. È il 29 aprile del 1945 e a viale Monza, nella periferia di Milano che guarda
verso Sesto San Giovanni, la notizia si irradia dai prati e dai marciapiedi: “Hanno ammazzato il Duce!”. Enrico Bertinotti, ferroviere socialista, prende per mano il figlio Fausto, di
5 anni, e si incammina. Racconta 59 anni dopo Fausto Bertinotti: “Ricordo che ad un certo punto ci fermammo. Troppo lontano? La notizia che erano
stati appesi? Risparmiare ad un bambino una scena drammatica? So solo che non
arrivammo in piazzale Loreto e ritornammo a casa”. Papà Enrico - socialista anticlericale “che preferiva Nenni a Togliatti” - È stato “il mio primo iniziatore alla politica”» (Fabio Martini)
• «Avevo imparato a leggere prestissimo proprio sull’Avanti! che mio padre, ferroviere e socialista militante, comprava ogni giorno.
Eravamo poveri, vivevamo in una casa di ringhiera con il bagno in comune, ma la
mia era una famiglia allegra. Ricordo ancora la gioia di mia madre quando le
misero in casa il rubinetto dell’acqua» (da un’intervista di Stefania Rossini) • «Comincia prestissimo a occuparsi di politica. E il posto È quello nel banco in ultima fila, accanto al compagno (solo di banco) Sergio
Bruni, all’Omar di Novara, l’istituto dove si diplomerà perito elettrotecnico “con un paio d’anni di ritardo”. In realtà gli anni di ritardo sono tre. Comincia le superiori a Milano, all’Ettore Conti, passa in prima ma È bocciato in seconda e deve ripetere. Siamo nel 1957 e arriva il primo trasloco:
il papà È andato in pensione e si torna al paese d’origine della famiglia, Varallo Piombia, riva piemontese del Ticino. La scuola
ricomincia all’Omar di Novara, istituto duro e selettivo: deve ripetere la terza e anche la
quarta e persino la maturità arriva solo nella sessione autunnale, nell’ottobre del 1962. Il perito Bertinotti non metterà mai la tuta, se non nel laboratorio di classe: non un giorno di lavoro da
operaio specializzato. Racconta Pietro Bertinotti, cugino alla lontana, ex
sindacalista a Novara: “Venne a chiedere a noi più vecchi come poteva fare per entrare nel sindacato. Noi gli rispondemmo: ‘Iscriviti al Psi e quelli ti piazzano subito’. E così fece”. Cresce nella cultura del bar di paese, che a Varallo Piombia si chiamava “Leopardi”, discutendo di ciclismo e politica. Fuma già la pipa, ma va ancora a sigarette. Legge mattina e sera il Calendario del
Popolo e soprattutto I Quaderni Rossi. Era noto come Malabrocca, la maglia nera
del Giro d’Italia, l’ultimo in classifica, sempre fuori tempo massimo, “perché nelle riunioni si attardava, continuava a parlare, per convincere tutti o
conoscere meglio la fabbrica che per lui era davvero un luogo misterioso”» (Fiumi)
• Marco Bosio, antico compagno, ha raccontato di quando a una manifestazione
fascista in piazza Martiri a Novara «Fausto voleva convincere i carabinieri in tenuta antisommossa che dovevano
sciogliere il corteo e appoggiare noi, di sinistra, che protestavamo. Lo fece
con tale insistenza che alla fine i carabinieri non ci videro più e lo riempirono di botte. Lo portammo malconcio in un bar perché si riprendesse» • Chi lo ha conosciuto a Torino dal 75 all’85, quand’era segretario piemontese della Cgil dice che era «un trentenne in carriera, coriaceo con i padroni ma anche abile nei rapporti
umani. “Un giovane leader che parlava sempre della classe operaia ma non la frequentava”, dice un suo vecchio amico. “Lo attraevano di più la grande borghesia, gli intellettuali, i docenti universitari, che accoglieva
nella sua casa zeppa di libri e quadri. Guardavi come si destreggiava e capivi
che avrebbe fatto strada”. Erano gli anni in cui il sindacato torinese aveva un avversario formidabile:
la Fiat. Bertinotti era noto come uno che non temeva lo strappo, anzi, e quando
nel 1980 l’azienda annunciò il licenziamento di 24 mila dipendenti fece la sua parte. Per settimane lui e i
suoi picchettarono la fabbrica mentre cresceva la tensione. “Un clima feroce”, ricorda l’allora sindaco Diego Novelli. “Dopo quattro settimane di lotta gli operai erano stremati e i rappresentanti di
Fiat e sindacato non si parlavano. Poi, sabato 27 settembre cadde il governo di
Francesco Cossiga e la Fiat annunciò la sospensione dei licenziamenti. Allora cercammo di convincere Fausto e gli
altri a trattare ancora, ma inutilmente. Mi accusarono di svendere la lotta, di
volermi salvare la poltrona. E quando la Fiat decapitò la rete dei delegati sindacali spedendoli in cassa integrazione, nessuno ammise
lo sbaglio”. In seguito Bertinotti ha rivisto le sue posizioni, criticando la strategia che
portò alla marcia dei colletti bianchi e l’accordo sindacale infine sottoscritto. “È stata una sconfitta”, avrebbe ammesso nel 2003, “e di fronte a una sconfitta bisogna dire: abbiamo perso”. Ma allora tirò dritto. Tanto dritto da ritrovarsi cinque anni dopo proiettato a Roma, nella
segreteria nazionale della Cgil. “Un cambiamento che lo esaltava e lo preoccupava”, ricorda Nerio Nesi, ex amico di Bertinotti ed ex presidente della Bnl. Anche
perché con lui arrivavano a Roma il piccolo Duccio e Gabriella Fanio, moglie dalla
bellezza messicana, capelli allora corvini e tailleur multicolori, che aveva
sposato diciottenne e su di lui vantava un chiaro ascendente. Forse per amor
loro Bertinotti chiese alla Bnl un appartamento a modico affitto, ottenendo 120
metri quadri con tanto di portico nella zona residenziale di Vigna Clara. Da lì È partita la sua scalata romana. Una strada lungo la quale avrebbe vissuto
momenti non esaltanti, come la scarsa popolarità in Cgil dovuta al piglio sabaudo o i pochi contratti chiusi e non proprio
memorabili (vedi quello per la formazione lavoro), ma anche momenti di
innegabile coraggio, come quando nell’86 denunciò le miserie del suo stesso sindacato, bisognoso “di un vero e proprio processo di rifondazione nella cultura, nella politica e
nel suo modo d’essere”. O quando nel 92 parlò di corruzione dentro la Cgil, beccandosi la censura del direttivo» (Riccardo Bocca)
• «In genere c’È poco interesse per la visione politica di Bertinotti, perché lo si interpreta come un uomo tutto charme e disimpegni, l’Houdini a cui la mitologia assegna l’apocrifo record di non avere mai firmato un contratto, a causa dell’amore per lo sciopero e dell’orrore per il compromesso; e anche adesso gli disegna addosso il profilo di
minaccia incombente su qualsiasi governo di centrosinistra, passato ed
eventualmente futuro. Perché il
soi-disant keynesiano Fausto significa tassazione dei Bot, imposta patrimoniale, 35 ore, e
inoltre lo scherzo assassino dell’ottobre 1998, quando sfilò la sedia sotto il sedere di Romano Prodi, fu accusato di tradimento, e lui
rivendicò con durezza la ragion politica: “Ma di che cosa si straparla, adesso al governo c’È Massimo D’Alema: siamo più o meno a sinistra?”. Bertinotti È al tempo stesso l’autore e la vittima del proprio ruolo politico. Al “Parolaio rosso”, secondo la definizione di Giampaolo Pansa, È stata attribuita ogni disfatta dell’Ulivo. Come nella celebre sentenza di Nanni Moretti al Festival di Cannes, dopo
la sconfitta del 2001: “Bertinotti?”, pausa, occhi sconsolati, e poi la convenzionale accusa di avere reso possibile
il trionfo di Silvio Berlusconi: “non capisco come il Cavaliere ringrazi milioni di persone, gli basterebbe
ringraziarne una sola”. E fa nome e cognome del Parolaio. “Lucciole per lanterne”, risponde quest’ultimo, piccato. E ha ragione. Nonostante l’accusa a cui si aggrappa mezza Italia, desiderosa di un capro espiatorio,
Bertinotti ha poche colpe nella batosta, come poi dimostrano gli istituti di
analisi. Ma forse Fausto III nasce proprio dopo la sconfitta del 2001. Non È uno sprovveduto, non È pura ecolalia postmoderna, non È un cicisbeo da talk show. Ha in mano il partito. Anzi, il partito È lui. Identificazione totale. E guardando dentro il partito il comandante Fausto
si accorge che la situazione non È affatto rosea. Fra le politiche del 1996 e quelle del 2001 Rifondazione ha
perduto una costola, ovvero i Comunisti italiani di Cossutta e Diliberto; ma
oltre ai 600 mila voti della scissione ne ha lasciati sul campo altri 700 mila.
L’astronomico 8,6 per cento del 96 diventa il meschino 5 per cento del 2001. I
deputati, che erano 35, si riducono a 11. Nelle roccaforti come il Piemonte, la
Liguria, la Toscana e l’Umbria, la Campania e la Calabria, il partito quasi si dimezza. Calano anche gli
iscritti, dai 130 mila del 1997 agli 85 mila del 2003. Al tradizionale
insediamento nella classe operaia (il 23 per cento), si affianca una
percentuale quasi identica di ceto medio intellettuale, e un 29,6 per cento di
pensionati. Diagnosi: partito vecchio» (Edmondo Berselli)
• Le ultime elezioni del 9-10 aprile 2006 hanno confermato le caratteristiche
dell’elettorato di Rifondazione, soprattutto relativamente all’età: al Senato il partito ha ottenuto una percentuale dell’uno e mezzo superiore a quella della Camera (7,37 contro 5,84) • Suo grande avversario, fin dai tempi del sindacato, È Sergio Cofferati, che per un certo periodo - quello in cui vennero in auge i
cosiddetti “girotondi” - sembrò contendergli la leadership della sinistra radicale • Eletto presidente della Camera ha pronunciato un discorso in cui ha dedicato la
vittoria «alle operaie e agli operai», fatto che ha indotto gli esponenti del centro-destra ad accusarlo di
veteromarxismo (molti commentatori hanno osservato che la classe operaia di
Bertinotti non esiste più). Questo elemento ha fatto passare in secondo piano alcuni passaggi che
denunciano una notevole apertura verso l’opposizione: il ringraziamento caloroso al suo predecessore Pierferdinando
Casini, a cui ha riconosciuto «capacità e senso delle istituzioni», e soprattutto: «Sono un uomo di parte, un uomo di parte che, perciò, non teme il conflitto; che sa che la politica chiede scelte, confronto tra
tesi diverse, anche opposizioni e persino contrapposizioni. Ma una cosa vorrei
che fosse bandita dal nostro futuro politico: quella di lasciare scivolare la
politica nella coppia amico-nemico, in cui c’È la negazione di quello che pensa diversamente da te. Abbiamo bisogno, insieme
alle differenze, e persino ai contrasti, di costruire un concorso per
realizzare un’Assemblea, questa, che parli a tutto il paese il linguaggio della convivenza,
della convivenza anche oltre la politica, della convivenza come valorizzazione
delle differenze, delle diversità da non negare ma, anzi, da nominare e da riconoscere: differenze di genere,
attraverso le quali si manifestano due punti di vista diversi nel mondo;
differenze etniche, tra nativi e migranti; differenze generazionali; differenze
tra credenti e non credenti e tra le molte fedi»
• È sposato con Gabriella Fanio: «Nella mia vicenda, devo ammettere che la famiglia ha assunto un peso davvero
particolare. Vivo da più di quarant’anni con una donna, Lella. È un legame che È fatto certamente di sentimenti tra due persone, un legame amoroso, di affetti.
Ma È dovuto anche a un processo di costruzione, a una relazione in cui la
condivisione, la solidarietà, forse la complicità, occupano tanta parte della tua vita. Ed È impastato dalla vicenda politica. Lella mi dice, sfottendo: “Le mie amiche andavano a ballare, e noi facevamo riunioni”»
• Ha un figlio, Duccio, che suona musica reggae e ha fondato con dodici amici la
società One Love Hi Pawa, sede di un negozio di dischi di musica giamaicana.
Bertinotti: «Sulla paternità forse ho seguito un po’ troppo quella religione della libertà ereditata da mio padre. Se tornassi indietro, non lo rifarei, ma forse non
sarei capace di essere diverso». Duccio: «“Papà È sempre stato un libertario. Mamma Lella È più rigida. Ancora adesso che sono adulto, marito e padre di tre bambini, non
dimentica mai di dirmi: hai salutato? ti sei fatto la barba?” Che musica si ascoltava in famiglia? “I cantautori: Guccini, Dalla, De Gregori e Conte. Mio padre È appassionato di jazz ma qualche volta metteva su anche qualche disco di canto
delle mondine”» (Paola Zonca)
• Chiacchiere e foto sui giornali per il matrimonio di Duccio - il figlio del
comunista - con Simona Olive, la “figlia del fascista”, dato che il padre È un importante esponente di Alleanza Nazionale (presiede il XIII municipio di
Roma). Duccio: «La verità È che io non sono comunista e che mia moglie non È fascista».
CRITICA «Tra i dirigenti della sinistra italiana, È il più irregolare, il più difficile da catalogare, il più capace di stupire. L’unico sindacalista ad aver fatto meglio in politica che nel sindacato, e l’unico socialista (prima della confluenza forzata nel Pci, nel 72, era stato
lombardiano e psiuppino) ad aver avvertito irresistibile il bisogno di
rifondare il comunismo dopo il tracollo dell’impero sovietico, e l’unico neocomunista a suo agio tra aristocratici, borghesi e proletari nel tempo
dei vetero, degli ex e soprattutto dei post» (Paolo Franchi)
• «Vive una contraddizione in subiecto: quella di essere neocomunista senza mai
essere stato comunista, di voler rifondare una “cosa” di cui È massimamente ignorante. In gioventù fu infatti socialista, massimalista, sindacalista ma comunista mai. Ha un’insopportabile erre moscia che fa arrapare le signore dei padroni» (Pietrangelo Buttafuoco)
FRASI «La mia È l’utopia concreta di Bloch. L’ispirazione a essere liberi e uguali. La critica alle basi materiali dell’ineguaglianza e dell’alienazione, che hanno assunto le forme della globalizzazione ma portano ancora
il nome terribile di capitalismo. E la base da rimuovere restano i rapporti di
proprietà» • «La definizione migliore È quella che È scritta in tutte le nostre tessere: “Il comunismo È il movimento che abbatte l’ordine delle cose esistenti”»
TIFO Milan • «Ero milanista anche quando il trio svedese non era ancora arrivato a San Siro.
Feci una scelta molto di sinistra. Prima del Gre-No-Li, il Milan non vinceva da
40 anni. Come la sinistra. Però la fede È stata premiata. Sono arrivati gli svedesi e il Milan ha cominciato a vincere
sempre» • Tifava Coppi: «Coppi È il sogno: il sogno di volare, ma anche le ali spezzate. Coppi È una figura drammatica, persino fisicamente drammatica. Lui È la vittoria e la sconfitta; irresistibile, questa figura che si staglia a volte
su panorami di neve, e che sembra proiettata a una supremazia sulla natura, un
andare oltre, un trascendimento. E quindi c’È un’attrazione che su di noi esercita la magia estetica di Coppi, e che non È prodotto di una retorica del bello. Prendi la maschera del volto: su questa
eleganza del profilo del corpo c’È un volto che tradisce ciò che il corpo non esprime, cioÈ la sofferenza, la durezza, il travaglio, l’insicurezza dell’impresa, la fatica bestiale».
VIZI «Brecht e Gandhi, San Paolo e Kavafis, don Vitaliano e Luxuria, Heidi Giuliani,
le donne in nero, Tex Willer, Coppi, Dylan Dog, Citto Maselli, lo psicanalista
Fagioli. Soprattutto, Pietro Ingrao» (Filippo Ceccarelli) • «Ha la faccia un po’ così, da vittima della moda, con le sue giacche rigorosamente in tweed, cachemire o
velluto old fashion, gli occhialetti con cordicella al collo come Rossana
Rossanda. Sa parlare forbito e sa come piacere alle donne» (Buttafuoco) • «Quando disse di voler essere un monopattino; di amare penne e matite, Hammet e
Chandler, impermeabili e vestiti usati, il Florian di Venezia e il Grand Hotel
dell’isola Borromea, il jazz e La battaglia di Algeri, i portaocchiali e la lozione da barbiere professionista Floid; di avere una
casetta di 40 metri quadri a Dolceacqua; di portare in tasca solo pochi euro “perché al resto pensa mia moglie Lella”; di aver rinunciato all’unico capo in cachemere mai posseduto; di aver chiamato il figlio Duccio come
Duccio Galimberti. E poi quando una giuria di 14 giornaliste parlamentari lo
elesse “il più virile” insieme con D’Alema, “il più gentile” insieme con Fini e “il più elegante”, da solo (le lettrici di Anna lo designarono invece “il più vanesio”, davanti a Berlusconi); quattro signore di Bologna fondarono il fan club “Bertinotti ti amo”; e Ambra Angiolini lo accolse in tv urlacchiando “Fausto quanto mi piaci!” (ma forse era Boncompagni in cuffia). E ancora quando invitò a bruciare le cravatte di Hermes per protesta contro i test nucleari francesi,
o giustificò l’assalto di José Bové ai McDonald’s (“Rifondazione preferisce la cucina mediterranea” fece anche scrivere in un comunicato)» (Aldo Cazzullo)
• Vanitosissimo. Protestava quando il giornale del partito (Liberazione) scriveva
troppo grosso il nome di Cossutta, ha trovato il modo di andare in tv anche da
presidente della Camera, si racconta ancora adesso di come a Las Vegas infilò apposta l’hotel più frequentato, il Caesar Palace (contro il parere degli amici che gli
consigliavano discrezione) e, mentre provava le slot machines, fu infatti
riconosciuto da un gruppo di italiani che si misero a scandire «Ber-ti-not-ti, Ber-ti-not-ti»
• La presidenza di Montecitorio potrebbe aver accentuato una certa, evidente
inclinazione per i piaceri borghesi: «L’altro ieri, mentre Giordano faceva fatica a contenere i malumori dei suoi [...]
Bertinotti era a Ischia in uno dei più begli alberghi dell’isola partenopea, immerso nella vasca dell’idromassaggio insieme alla moglie Lella» (Maria Teresa Meli, Corriere della Sera 19 giugno 2006) • «Non so se sono elegante. Ho messo la cravatta dopo i cinquant’anni. Forse perché stavo invecchiando e così mi sono permesso un po’ di restauro» • «Non sono credente, e lo dico solo come elemento descrittivo perché non do giudizi se sia migliore la condizione di chi ha fede o di chi non ce l’ha. Ma ho un interesse enorme per il fenomeno religioso»