Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
BENVENUTI
Nino Isola d’Istria (Slovenia) 26 aprile 1938. Ex pugile. Campione del mondo dei pesi medi
(nel 67 e poi dal 68 al 70), medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma (60). «La prima volta che l’ho visto combattere è stato quando ha vinto le Olimpiadi di Roma. Quella finale Nino la vinse
facilmente senza bisogno di dare il meglio. Come in tutta la sua brillante
carriera in maglietta gli era bastato il jab sinistro per dettare i tempi dell’incontro, per tenere in soggezione un avversario già rassegnato alla sconfitta. L’annuncio del verdetto fu una formalità. Da professionista l’ho visto nel secondo incontro della carriera, una facile vittoria contro un
certo Nicola Sammartino. Ho capito che sapeva picchiare. Il jab sinistro era il
baricentro della sua boxe, ma il gancio sinistro e il montante destro erano le
armi con cui poteva risolvere un incontro con un colpo solo, una qualità rara» (Rino Tommasi)
• «Il titolo nazionale dei medi è il primo traguardo, mentre l’Italia dei pugni si spacca in due per una rivalità tra Nino e Sandro Mazzinghi che ricorda quella innescata nel ciclismo da
Bartali e Coppi. Si dice che Benvenuti piaccia agli spettatori dal palato
raffinato, quelli che privilegiano stile, tecnica ed eleganza, mentre Mazzinghi
è uno spericolato guerriero che entusiasma soprattutto chi ama le emozioni forti.
Inevitabile che si arrivi a una sfida, programmata il 18 giugno 1965 a San
Siro, dove Nino confeziona un capolavoro. Il suo colpo prediletto è il gancio sinistro, ma sul ring milanese è un montante destro, lungamente preparato in allenamento, a stendere al sesto
round Mazzinghi, che al rivale consegna il titolo mondiale dei medi junior.
Sconfitto faticosamente Mazzinghi nella rivincita romana di sei mesi dopo,
Benvenuti conquista anche il titolo europeo dei medi. Una marcia che sembra
inarrestabile si blocca però nel 66 a Seul, dove il sudcoreano Ki Soo Kim gli infligge il primo insuccesso
da “prof”, complice anche una misteriosa rottura delle corde sul ring. Stanno intanto per
arrivare le tre indimenticabili notti di New York, che tengono svegli milioni
di italiani, incollati prima alla radio e poi alla tv. Sono le notti in cui
Benvenuti affronta per tre volte Emile Griffith, chiudendo il trittico con due
vittorie e una sconfitta e riportando definitivamente in Italia il titolo
mondiale dei medi» (Mario Gherarducci)
• «Il 17 aprile del 1967 uomini e donne che non avevano mai lasciato l’ombra delle proprie case a Little Italy s’avviarono al Madison per assistere al suo trionfo. C’era una New York di paisà imbandierati attorno al quadrato. Quando fu proclamato campione del mondo, al
centro del ring, assieme ai tricolori, sventolavano i fiaschi di Chianti. Era
un uomo felice. Continuò ad esserlo sino al momento in cui Monzon, una belva camuffata da picchiatore
periferico, non rivelò con un’esplosione di fuoco la sua vera natura. La notte del 7 novembre del 1970 Carlos
Monzon gli sparò in faccia un colpo che sembrava il gemello d’una mazzata da baseball. Dall’esplosione alla discesa definitiva del sipario, trascorse poco tempo. Non si è fatto depennare dalla boxe. Lo guardi, lo ascolti e ti vengono i dubbi. Ma
davvero ha abitato lo stesso mestiere di quelli che, appena sentono il din don
d’una campana, si mettono in guardia e puntano terrorizzati un inesistente nemico?
Proprio lo stesso mestiere. Ma lui era strepitosamente bravo, un virtuoso della
propria conservazione, e il grande traguardo, il titolo di campione del mondo,
l’aveva raggiunto, era stampato non nei sogni, ma nella realtà. Aveva conservato la spavalderia per affrontare il secondo atto, quello della
quotidianità in abiti borghesi, strizzando l’occhio al suo sinistro e mimando il gancio contro le avversità» (Gianni Ranieri)
• Ultimo match a Montecarlo l’8 maggio 1971: «Nel famoso combattimento contro Monzon, dopo tre riprese di un incontro ancora
tutto da vivere, vidi volare sul ring quell’asciugamano che avrebbe decretato una resa definitiva, irreversibile. Non servì che dopo tre secondi avessi calciato il telo in platea. Quella volta, nemmeno
le disperate proteste poterono nulla contro il destino che stava scrivendo l’ultimo capitolo della mia vita di pugile. Forse, ma lo capii più tardi, era giusto che si chiudesse così, nella maniera in cui ho sempre desiderato che finisse. Mai avrei accettato di
abbandonare il ring da campione. Mi sarebbe sembrato di evitare l’ultimo sfidante per paura di perdere. Fu così che quella notte, a Montecarlo, finì la mia carriera di pugile. Se avessi rifiutato di incontrare Monzon, la prima
volta a Roma e poi a Montecarlo, avrei potuto continuare ancora. Sì, certo, ma per quanto tempo e con quale spirito, sapendo di aver evitato il
migliore?».