Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
BELLOCCHIO
Marco Piacenza 9 novembre 1939. Regista. Tra i suoi film: I pugni in tasca (65), La Cina è vicina (67), Sbatti il mostro in prima pagina (72), Diavolo in corpo (86), Il sogno della farfalla (94), Il principe di Homburg (97), La balia (99), L’ora di religione (2002), Buongiorno notte (2003: uno dei quattro film italiani - su 200 - che tra il 2003 e il 2005 ha
incassato più denari di quelli ricevuti dal ministero. Gli altri sono I giorni dell’abbandono di Faenza, Agata e la tempesta di Soldini e La vita che vorrei di Piccioni), Il regista di matrimoni (2005). «Sono nato nella guerra, da una famiglia borghese, provinciale, anzi paesana. Mio
padre, avvocato a Piacenza, veniva da una famiglia di agrari di Bobbio, non
ostile al fascismo. In casa avevamo l’autografo del Duce che si congratulava per la numerosa prole: otto figli. Io ero
l’ultimo. Mia madre era religiosa. Mi mandarono prima dai fratelli delle scuole
cristiane, poi in liceo a Lodi, dai barnabiti. Un collegio per benestanti e
paganti, il che forse contribuì a proteggerci da violenze o devianze. Non ho ricordi drammatici, nulla più di un frate che allunga le mani verso i calzoni corti degli allievi, nulla che
ricordi le vicende che abbiamo visto in questi anni al cinema, da
Magdalene alla Mala educación di Almodovar. La cifra era semmai la noia, la regola, l’ordine: la messa ogni mattina, che diveniva spesso un prolungamento del sonno.
Era il collegio che ho poi raffigurato nel mio film, con le divise e i ritratti
dei benemeriti, e il vicerettore che dice allo studente ribelle: noi non
educhiamo superuomini, insegniamo ad accettare la realtà, a obbedire alle leggi, a rispettare le istituzioni. è stato allora, in quella scuola di mediocrità, che ho smesso di credere in Dio e nella trascendenza, di rappresentare l’angoscia e la paura con le fiamme dell’inferno. Questo non significa ovviamente che l’angoscia e la paura siano passate»
• «Da ragazzo, il mio idolo era Lenin. Ero un rivoluzionario, ero contro il
revisionismo del Pci, ma personalmente non ho mai torto un capello a nessuno. L’ironia e la prudenza, innate, mi hanno salvato in più di un’occasione» • «In quasi tutti i film di Bellocchio c’è un ribelle, e c’è un genitore da assassinare. Nel primo, autoprodotto nel 1965 con un mutuo da 20
milioni ottenuto grazie al fratello Piergiorgio, il protagonista annega il
fratello e getta nel burrone la madre. “Il mite vendicatore dell’Appennino, come lo definì Moravia, avrebbe dovuto essere Gianni Morandi. Si era appena rivelato come
cantante, e imprevedibilmente accettò la parte. Fu bloccato dai produttori e dal padre che gli disse: se fai quel
film ti spezzo le gambe”. Era
I pugni in tasca, successo ripetuto due anni dopo con La Cina è vicina, premiato a Venezia dalla critica insieme con La chinoise di Godard» (Aldo Cazzullo) • «Nella tradizione artistica spesso ci sono inizi folgoranti e poi un declino
lento ma inesorabile. è come se nei quarant’anni successivi a I pugni in tasca, che fu un film di ribellione nichilista, io mi sia ribellato al successo di
quella ribellione e all’identità che mi aveva dato. Certamente molti ancora mi definiscono “l’autore dei Pugni in tasca”. Non ne disconosco la paternità, ma non mi è bastato. Tutto il mio lavoro successivo ha sempre evitato la ripetizione di
quell’esperienza» • «Più che un filosofo io ero e resto un ricercatore: assillato da un’insoddisfazione costante che reputo positiva. Il successo è niente, l’importante è arricchirsi dentro» • «A vedere un film di Marco Bellocchio si va ormai con una certa inquietudine:
amandolo moltissimo, parteggiando per lui con tutto il cuore di spettatore, si
teme di provare, se non una delusione, una specie di incompletezza, il fastidio
verso se stessi per non riuscire a capire sino in fondo, di essere insomma in
torto verso un autore che da più di quarant’anni, e restando un uomo dall’eterno fascino mite e schivo, ci ha dato opere bellissime e importanti che hanno
segnato il cinema italiano e la nostra stessa vita. Non si smette mai di
aspettarsi da lui un capolavoro» (Natalia Aspesi)
• «C’è un film che divide il mio percorso in due: è Il diavolo in corpo, di vent’anni fa. è stato una rivoluzione per me. Quella novità si è sviluppata poi attraverso altre ricerche e altri esperimenti e da lì, è vero, il mio lavoro è diventato più “accessibile”. Ma non ho mai smesso di essere un ribelle. Neanche con L’ora di religione: ribellione alla cultura assoggettata all’autorità della Chiesa. I giovani (si dice: se non si è ribelli a vent’anni... Poi purtroppo molti se lo dimenticano) amano il mio atteggiamento nei
confronti del potere culturale istituzionale. Nessun mio film è venuto meno a questo principio, ma negli ultimi forse la mia maturità ha trovato una comunicabilità più diretta».