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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

BANELLI

Cinzia Grosseto 25 ottobre 1963. Ex terrorista. Coinvolta negli omicidi D’Antona e Biagi. Il 24 ottobre 2003, al momento dell’arresto - susseguente a quello di Nadia Lioce e reso possibile dalle
informazioni contenute nel suo palmare - venne descritta così: «Fa parte della colonna toscana. 40 anni, al quarto mese di gravidanza.
Grossetana ma residente a Vecchiano (Pisa) al primo piano d’una villetta bianca (comprata per 300 milioni l’anno scorso da un vigile urbano). Dall’88 lavora nel laboratorio di endocrinologia dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa (lì ha conosciuto Morandi). Mora, riccia, bassa di statura, padre agricoltore in
pensione, madre casalinga, due fratelli, è sposata con Angelo Vairo, 36 anni, di origine campana. è la postina che avrebbe recapitato i volantini di rivendicazione per l’assassinio del professor D’Antona. Indicata nel computer della Lioce come “compagna SO”, sarebbe stata sottoposta dai terroristi a un’inchiesta interna: era inaffidabile. Per lei dieci ore di perquisizioni, casa
sottosopra e manette pronte. I poliziotti sono arrivati alle 3 del mattino in
via Arginevecchio. Gli agenti: “Più che sorpresa sembrava rassegnata. Ha detto una sola frase: ‘Adesso non parlo, più avanti vedremo’. Poi il silenzio”. Il marito invece era disperato» (Il Foglio dei Fogli)
• Il marito non sapeva niente. I brigatisti, dopo l’inchiesta interna, l’avevano sospesa per “inaffidabilità rivoluzionaria”: la sua vita privata (moglie, tecnico in clinica) le impediva di arrivare
puntuale agli appuntamenti, aveva anche mandato a monte una rapina. Si è poi pentita (è la prima pentita delle nuove Brigate rosse), sperando in uno sconto di pena • Quattro giorni prima di essere arrestata, aveva sostenuto all’università la prova scritta di Diritto del lavoro, testi di Marco Biagi, il professore che
aveva contribuito a uccidere: «“Ricordo che qualche settimana più tardi, durante un colloquio in carcere, mio marito mi disse che avevo preso 30.
Io i testi di Biagi li conoscevo già...” [...] “Sono una traditrice per i miei ex compagni, un’opportunista per l’opinione pubblica e non so che cosa per lo Stato - dice nell’intervista realizzata tramite il suo avvocato - ma rifarei ugualmente questa
scelta”. Nella villetta a due piani lungo la strada che divide il piccolo centro di
Vecchiano, alle porte di Pisa, dove Cinzia Banelli vive agli arresti
domiciliari, la donna aspetta che si svegli suo figlio Filippo, nato un anno e
mezzo fa mentre lei era in carcere. In casa ci sono anche i genitori, i nonni
di Filippo, che devono portarlo al parco; lei non può, divieto d’uscita. Il marito è al lavoro, dove ogni giorno lo accompagna una scorta armata. Fuori, una
camionetta dei carabinieri è il segno che questa è una casa prigione, i militari controllano chi entra, chi esce, chi passa. è il tran-tran di una vita cambiata una mattina di maggio del 1999, quando Cinzia
Banelli prese un treno per Roma, andò in via Salaria e partecipò all’assassinio di Massimo D’Antona, la prima vittima delle nuove Br. “Durante il viaggio d’andata pensavo solo a ciò che avrei dovuto fare nell’azione — racconta l’ex brigatista — ripetevo le frasi da dire via radio, come dovevo muovermi. C’era una preparazione meticolosa e militare, senza il tempo per altri pensieri.
Ero convinta di andare a compiere un’operazione politica, non un omicidio”. Massimo D’Antona, consulente del ministro del Lavoro Bassolino, il 20 maggio 99 morì ammazzato da sei colpi di pistola. “Dopo il delitto mi sono allontanata secondo il programma prestabilito. Sul treno
del ritorno a casa il peso e la responsabilità di ciò che avevamo appena fatto si fecero sentire. Io avevo votato per l’eliminazione dell’obiettivo, pur senza aver sparato avevo portato il mio compagno Mario Galesi a
farlo. Ebbi la sensazione di aver provocato qualcosa che cambiava non solo la
vita di altre persone, ma pure la mia. Per sempre”. La sera, a casa col fidanzato ignaro di tutto, Cinzia Banelli seguì il telegiornale provando a cambiare discorso. E cominciò ad affrontare il disagio che l’avvolgeva ogni volta che usciva dal microcosmo brigatista rientrando nel mondo:
in famiglia, al lavoro, con gli amici, “quelli che sapevano delle mie idee rivoluzionarie ma mi consideravano un’utopista. Qualcuno mi ci prendeva anche in giro”. L’avvicinamento alla politica per Cinzia Banelli avvenne alla fine degli anni
Ottanta, quando giunse a Pisa da Grosseto. “Avevo già 26 anni e cominciai a frequentare ambienti e discorsi di un certo tipo. Tutto
ancora nell’ambito della legalità, con toni estremisti ma mai violenti. Io non sono mai stata attratta dalla
violenza diffusa né la violenza diffusa c’entra con la lotta armata”. In quegli ambienti cominciarono a circolare gli scritti dei “prigionieri politici” delle Br, gli irriducibili chiusi in carcere. “Dalla lettura di quei testi s’avviò un dibattito che poi è proseguito in ambito più ristretto”. Da lì nacquero i Nuclei comunisti combattenti, poi divenuti Brigate rosse con l’omicidio D’Antona. Tra loro c’era Cinzia Banelli diventata Sonia, “So.” nel linguaggio cifrato brigatista. [...] Tre anni dopo D’Antona, toccò a Marco Biagi, consulente del ministro del lavoro Maroni. In mezzo, per Cinzia
Banelli, un matrimonio molto borghese nascosto ai compagni delle Br - “sapevano soltanto della mia convivenza” - qualche scontro politico e non solo: “Nel 2000 mi proposero di passare all’impiego part-time per aumentare il lavoro nell’organizzazione, ma dissi di no. Ebbi degli scontri con Galesi perché mettevo il limite della mia vita privata all’impegno politico. Per lui le Br erano tutto, mi diceva sempre che girava armato
per non farsi prendere vivo. Com’è accaduto”. La preparazione del delitto Biagi, “deciso in un’ultima riunione tenutasi in un American bar di viale dei Mille a Firenze, con i
tavolini all’interno”, coinvolse direttamente la brigatista a mezzo servizio. La sera del 19 marzo
2002 Biagi fu ucciso sotto casa, Cinzia Banelli faceva parte del commando e
come sempre aveva il problema di non far sorgere sospetti nei suoi familiari: “Era la festa del papà e in quell’occasione telefonavo sempre a mio padre. Lo feci anche quel giorno, da Porretta
Terme, altrimenti si sarebbe chiesto come mai non gli avevo fatto gli auguri.
Poi pensai che stavo uccidendo un padre... Ti senti un verme, ma l’idea che lo fai per un fine che consideri più alto ti porta a superare anche questo... Purtroppo è così. Solo al di fuori del progetto brigatista la vita umana riacquista il suo
valore”. Cinzia Banelli ne uscì all’indomani dell’omicidio Biagi, in concomitanza con una crisi al vertice dell’organizzazione, rimasta decapitata sul treno Roma-Firenze, il 2 marzo 2003.
Mario Galesi morì dopo aver ucciso il sovrintendente di polizia Emanuele Petri, Nadia Lioce finì in carcere con la prospettiva dell’ergastolo. “Proprio loro che m’imputavano uno scarso rispetto delle regole - commenta la pentita - le avevano
violate. Viaggiare nello stesso scompartimento, una sola arma, numeri di
telefono da cui si poteva risalire ad altri. Ci avevano detto che erano state
prese tutte le precauzioni, ma evidentemente non era così”. Da quei numeri di telefono gli investigatori arrivarono anche alla casetta di
Vecchiano abitata da marito e moglie con figlio in arrivo: “In non pensavo che potessero risalire a me. Non avevo una storia politica alle
spalle, ormai ero fuori dalle Br sia nella realtà che mentalmente. Tanto da decidere di mettere al mondo un figlio”. Ma una notte, il campanello della villetta suonò. Andò a rispondere il marito di Cinzia. “Disse che era la polizia, capii subito tutto”. In carcere, la strada verso la collaborazione è stata lunga e tortuosa. Al primo tentativo l’aspirante pentita ha provato a chiamarsi fuori dagli omicidi. “Stupidamente” ha detto davanti ai giudici. E adesso spiega: “Non è facile accusarsi di essere un’assassina davanti ai propri familiari. Temevo l’ergastolo ma al tempo stesso di
proteggere l’organizzazione. Così mi sono decisa a dire tutto, anche di quei due delitti”. E in famiglia come l’hanno presa? “Hanno scelto di restarmi vicini. Tutti. Anche mio padre, vecchio militante del
Pci, che se avesse saputo qualcosa prima mi avrebbe denunciato. Mi hanno detto
che a loro non dovevo rendere conto, ‘è con la vedova del professor Biagi che devi parlare’”. Alle mogli di Marco Biagi e Massimo D’Antona, Cinzia Banelli ha scritto due lettere, consegnate in busta chiusa
tramite gli avvocati. La notizia è venuta fuori durante il processo di Bologna e le due vedove hanno mostrato di
non gradire. Oggi la donna che ha aiutato a uccidere i loro mariti dice: “Per quanto poco possano valere, io ritenevo dovute quelle scuse e non intendevo
farle diventare pubbliche. Ovviamente loro hanno tutto il diritto di rifiutarle
e non ho alcun titolo per invadere ancora la loro vita. Purtroppo non posso
ripagare nulla”. La scelta della collaborazione è soprattutto per dare un futuro al bambino: “Durante la mia detenzione una agente penitenziaria captò una conversazione tra Lioce e Morandi. Lui non voleva credere che avessi deciso
di collaborare e diceva che doveva essere a causa di mio figlio; lei replicò che sbagliavo, perché un giorno mio figlio mi avrebbe chiesto conto del mio tradimento. Vorrei dirle
che la sua profezia non mi spaventa affatto, sono pronta a spiegargli che si può sbagliare e imparare dai propri errori, che cambiare idea può essere anche indice di volontà riparatrice e risarcitoria. Piuttosto mi terrorizzava l’idea di dover dire a mio figlio che l’avevo abbandonato per coerenza e fedeltà a un’idea nella quale non credevo neanche più, che apparteneva a pochi e che seminava morte. Capisco che questi sentimenti
possano sembrare un retaggio borghese, ma io li trovo solo profondamente umani
e mi basta”» (Giovanni Biancone)
• Condannata a 16 anni per l’omicidio Biagi e a 20 per quello di D’Antona. Le sono state riconosciute le attenuanti generiche, ma non l’attenuante della collaborazione.