Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
ARMANI
Giorgio Piacenza 11 luglio 1934. Stilista. «Sono partito per il servizio militare portandomi la racchetta da tennis».
VITA «Il mio primo ricordo sono gli orecchini a palla, d’oro rosso, di mia zia Anna quando avevo quattro anni e mia madre mi portava a
casa sua. Era il 1938, vivevamo a Piacenza». Il padre era impiegato, la madre casalinga. «Sono convinto che, nonostante i mille incontri della vita, il nucleo vero di una
persona si formi nei primi anni. Mia madre, che pure era rimasta orfana presto
e aveva dovuto fare da madre a tanti fratelli, veniva da una famiglia di
mobilieri che a Piacenza aveva avuto un certo tono. Lei a quel tono ha sempre
tenuto e ha cercato di trasmetterlo ai figli. Durante la guerra ci cuciva
vestitini di tessuto militare, tutti uguali, ma tanto decorosi da suscitare l’invidia dei nostri compagni di scuola. Comunque io mi sentivo molto elegante
anche nella divisa di figlio della lupa, che aveva una specie di bandoliera
bianca rigida e una grande M nera laccata. Non mi piaceva invece quella da
balilla, troppo anonima»
• Durante la guerra Piacenza fu un frequente obiettivo dei raid aerei degli
alleati. «Se c’era il sole, avevo paura, perché il sole portava i bombardieri» ha ricordato sua sorella, Rosanna. Un giorno, quando lei aveva 4 anni e il
fratello 9, nell’uscire da un rifugio antiaereo, alcuni compagni chiamarono Giorgio, che
attraversò la strada per vedere che succedeva. I suoi amici avevano trovato una bomba
fumogena. Uno di loro la accese, dando fuoco a una polvere infiammabile che
aveva nella tasca della giacca. L’esplosione uccise un bambino e bruciò Giorgio dalla testa ai piedi. Rimase 40 giorni all’ospedale, lo mettevano tutte le mattine nell’alcool e gli tiravano via la pelle. Gli restò una cicatrice lasciata dalla fibbia del sandalo che gli marchiò il piede
• Quando gli chiedono come si sia sviluppato il suo senso dello stile, Armani
ricorda un Natale subito dopo la guerra, quando sua madre servì un pollo per la prima volta in tanti mesi: «Ricordo ancora il profumo». Il piccolo Giorgio pensò che avesse decorato la tavola con troppi fiori. Le disse che avrebbe dovuto
togliere alcune decorazioni. «Cominciò tutto così» • Finita la guerra, il padre fu mandato in carcere: «Fece otto mesi di reclusione solo perché era stato un impiegato amministrativo presso la Federazione del Fascio. Io
avevo 11 anni e ho ancora negli occhi quella rete metallica, e lui lì dietro, ammassato assieme agli altri detenuti. Ricordo le lacrime che gli
scorrevano lungo il viso, l’impotenza, la mortificazione. Andavamo a trovarlo la domenica, ma non riuscivamo
quasi mai a capire cosa dicesse. Nella confusione delle voci, capitava che un
prigioniero rispondesse alla domanda rivolta a un altro. Comunque si riprese,
trovò un lavoro a Milano e vi trasferì la famiglia»
• «Non ho mai cancellato dalla mente il rantolo di mio padre, la smorfia del suo
viso mentre moriva a 50 anni. Mio padre resta l’unico che ho visto morire. Di tutti gli altri, di mio fratello, di mia madre, ho
avuto notizia al telefono e - pensandoci - sempre alla stessa ora del mattino,
alle sette» • Il trasloco a Milano, nel 49, fu per lui uno shock: «A sedici anni, lasciare Piacenza e venire a studiare a Milano. Intanto non
vivevamo in centro ma a Porta Ticinese. E poi Piacenza, la provincia,
significava un piccolo mondo nel quale noi vivevamo tranquilli e protetti.
Belle case marrone, scure sotto la neve. Reminiscenze ottocentesche legate ai
nonni. E poi lasciare la natura, la campagna, l’odore del fieno, delle aie». Studiò Medicina. «Ho fatto il servizio militare a ventitré anni ed è stata una grande delusione. Io pensavo fosse come nei film: bello, giusto,
estetico. Partii portandomi la racchetta da tennis! Invece nei primi tempi
avevo nostalgia di casa. Non ero mai uscito dalla famiglia, e quando vennero i
miei a trovarmi, la prima volta, mi misi a piangere come un vitello. Non volevo
crescere, avevo fatto due anni di Medicina pensando di diventare uno di quei
medici di campagna molto romantici, come li racconta Cronin. In quegli anni ero
timido, fragile, goffo. Ero un ragazzo carino, molto civile, e piacevo alla
gente»
• Raccomandato da un’amica giornalista, trovò un lavoro alla Rinascente nel reparto allestimento vetrine: «Entrai come assistente per le vetrine e divenni poi responsabile di una boutique
uomo sperimentale. Alla Rinascente il mio capo mi aveva detto: “Giorgio, lei sarà sempre un buon secondo, si ricordi”» • Aveva quasi trent’anni quando giunse (grazie ad Adriana Monti) la prima occasione: un lavoro con
il designer Nino Cerruti. «Lì cominciai davvero a lavorare con impegno per cercare di capire come funzionava
un’azienda dalla A alla Z». Poi, un entusiasta di moda, ricco e carismatico, Sergio Galeotti, cambiò per sempre la sua vita: «Mi disse: “Penso che tu sappia fare di più”. Io avevo fatto solo moda maschile e desideravo innovare la moda femminile. Così a 38 anni, in corso Venezia, a Milano, in due stanze, che ammobiliammo con i
soldi ricavati dalla vendita delle nostre Volkswagen, iniziammo. Volevo che le
donne portassero giacche, cravatte e smoking come gli uomini, ma che restassero
il più femminili possibile. I miei maestri furono i creatori di vestiti del cinema
americano anni Trenta, e Coco Chanel, poi Kenzo, Christian Bailly… Avevo in mente quell’aria elegante e un po’ sommessa degli anni Trentacinque, Quaranta»
• «Nel 1976, separate dalla rabbia della città, in due locali di corso Venezia, lavoravano in laborioso silenzio tre persone,
Giorgio Armani, il socio Sergio Galeotti e la segretaria tuttofare Irene: era
nata l’anno prima, con molto azzardo, la Giorgio Armani spa, con un capitale
miserevole. In autunno c’era stata la prima sfilata uomo e donna dello stilista che sino a quel momento
aveva lavorato per aziende altrui, come la Cerruti. Folgorazione! Quel
quarantenne venuto dall’industria dell’abbigliamento si era di colpo sottratto sia alle carinerie preziose e
politicamente scorrette della couture, scomparsa dalle strade ma opulenta nei
salotti, che ai gonnelloni zingareschi e agli zoccoli delle ragazze che anche
in cinquantamila riempivano le piazze per richiedere la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza (ottenuta due anni dopo). Senza clamore, anche Armani
stava compiendo la sua rivoluzione» (Natalia Aspesi)
• Diventò un nome familiare a tutti, il Museo Guggenheim allestì una retrospettiva su di lui, poi esposta a Bilbao, in Spagna. «Ho avvertito il successo nell’82, con la copertina di Time. Lì per lì non diedi importanza alla cosa. Stavo ancora affannandomi per imparare a
disegnare, a fare l’imprenditore, a parlare con la stampa. Con Sergio Galeotti, il mio socio,
avevamo messo su questa avventura come due matti, in modo un po’ spudorato. Quando eravamo ancora agli inizi Sergio parlava con i capi dei
grandi magazzini imponendo sfacciatamente le sue condizioni: “O mi comprate questo numero di capi o non vi do niente”. Il bello è che funzionava e la nostra azienda cresceva. Capii l’importanza di quella copertina solo quando Valentino, incontrandomi per caso, mi
salutò con un sonoro: “Però!”»
• Nell’85, Sergio Galeotti morì di Aids. «Quando persi Galeotti fui costretto a occuparmi di tutte le cose di cui prima s’occupava lui. Le relazioni finanziarie, gli avvocati, i contratti» • Nel 1982, fu il primo a dedicare ai giovani una linea vera, l’Emporio, una griffe a costi contenuti: «Ci fu un collega che disse: “Armani s’illude che i giovani abbiano i soldi”. Io invece pensavo a un miracolo: il prodotto di uno stilista, che tenesse
conto delle tendenze e che rientrasse in certi costi. E il miracolo c’è stato. Perché ho sempre pensato che il nostro mestiere non può legarsi solo a un’élite e a negozi un po’ snob, ma ha bisogno del mercato. Il mio orgoglio è che tante altre griffe giovani sono nate e cresciute, ma Emporio non si
confonde mai con loro»
• «Io ho un buon patrimonio, ma essere veramente ricco è un altro mestiere. Bisogna imparare a essere ricchi perché la gente si aspetta che il ricco sia diverso. Io non ho ancora avuto tempo per
essere ricco» • La biografia più recente è quella di Renata Molho Essere Armani (Baldini e Castoldi, 2006).
FRASI «Credo che la prima funzione della moda sia quella ovvia, ma non sempre seguita,
di rendere più belle e interessanti le persone» • «Quando un abito è davvero splendido, ed è disegnato con talento, allora conserva la sua bellezza anche per il futuro» • «Comincerei a preoccuparmi se non venissi più invidiato» • «L’arte è il punto di partenza della mia moda. Ho disegnato ispirandomi a Klimt,
Kandisnkij, Matisse, Van Gogh» • «Ho trasgredito i costumi. Gonna e camicia d’organza e una cravatta da uomo regimental. Una giacca di pelle e una camicia di
chiffon» • «Le donne? Sono pazze. Prima vestivano per piacere agli uomini, adesso soltanto
per sbalordirsi l’una con l’altra. La moda è diventata sregolatezza. Ma non può esser carnevale tutto l’anno!» • «Per far questo mestiere non occorre saper cucire. Occorre un grandissimo occhio
e saper capire cosa non funziona in una tela, e non c’è il colore, non c’è il tessuto. Si viaggia in un deserto di sabbia e occorre valutare che cosa in
un capo di prova non corrisponde al disegno originale. Poi le correzioni le
fanno i tecnici, ma sono io a dire cosa fare e non fare... Comincio dai “no”, quando inizio a pensare a una nuova collezione. è dalla somma di quei “no” che i miei abiti prendono una forma sempre più chiara e definita. Credo di avere del talento nel togliere, nell’eliminare quando gli altri invece aggiungerebbero. è il rigore il principale canone estetico a cui mi attengo. Il superfluo vorrei
eliminarlo sempre»
• «Guardo la gente per strada, nei luoghi pubblici, al cinema. Prima di tutto tengo
conto di quello che vorrei che un uomo e una donna portassero. Giorgio Armani
designer magari ha pensato a una donna scrittrice degli anni Trenta a casa di
certi amici intellettuali a New York e il Giorgio Armani manager dice: “Ma quante ce ne sono di queste donne?”. Dieci. E allora non va bene» • «Se prima i miei imitatori li giudicavo dei falsari che potevano compromettere il
mercato, oggi preferisco considerarli dei fan. Copiando la mia moda riconoscono
nel mio stile lo stile vincente» • «Ogni volta che la stampa ha osannato il mio lavoro, le vendite sono state
difficili. Ricordo la mia famosa sfilata giapponese ispirata ai disegni di
Utamaro: le giornaliste piangevano gridando alla meraviglia, nei negozi fu una
tragedia. La stampa fa il suo mestiere, non si accontenta mai: così se mi ripeto, in nome del successo del mio stile, dicono appunto che dovrei
rinnovarmi: se mi rinnovo, dicono che non sono più io».
CRITICA «Negli anni Settanta, rivoluzionò il modo di vestire di uomini e donne, in parte vestendoli gli uni come gli altri. Negli
anni Ottanta, ridefinì il look di Hollywood con un fascino più sottile e negli anni Novanta ha costruito un impero vendendo jeans e abiti
eleganti» (Dana Thomas) • «Prima di Giorgio, non c’era un’industria di moda italiana. C’era un’industria di fabbriche italiane» (Lauren Hutton).
VIZI Anni fa disse di aver provato la coca. «A 30 anni sì, l’ho provata. Una volta: una sensazione troppo piacevole, ma non ero io. Mai più toccata. Non ho bisogno di essere diverso» • «Ho scoperto il mio corpo a 55 anni, e mi sono messo d’impegno a curarlo» • «Nella mia famiglia c’è la caratteristica di diventare vecchi senza sembrarlo troppo. Mia madre è morta a 91 anni con una carnagione intatta. E poi c’è la disciplina: non bevo, non stravizio, non faccio tardi, mi fermo sempre un
momento prima dell’eccesso» • «Dicono sempre di me che sono freddo, che sono scostante. Non è affatto vero! Io vorrei divertirmi, ed essere una persona divertente, più di ogni altra cosa! Vorrei essere trasgressivo, frequentare gente, magari un po’ pericolosa. Invece sono sempre qui a lavorare. Lascio sempre che il senso del
dovere prenda il sopravvento sui sentimenti e vivo in un limbo. Forse vent’anni fa ho fatto qualche follia, ho avuto avventure un po’ trasgressive, ma poi…».