Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
ARBASINO
Alberto Voghera (Pavia) 22 gennaio 1930. Scrittore. «La carriera dello scrittore italiano ha tre tempi: brillante promessa, solito
stronzo, venerato maestro».
VITA Laureato in Legge alla Statale di Milano, è stato assistente di Diritto internazionale a Milano e a Roma, ma è passato presto alla letteratura esordendo nel 57 con Le piccole vacanze, seguite nel 59 da L’Anonimo lombardo. è stato tra i fondatori del Gruppo 63, e in quell’anno ha pubblicato la prima versione del suo romanzo più famoso, Fratelli d’Italia, rielaborato nel 67 e di nuovo nel 95. Altri romanzi: Super-Eliogabalo (69), La bella di Lodi (72), Specchio delle mie brame (74). Tra le sue raccolte di saggi Parigi o cara (60), Certi romanzi (64), Grazie per le magnifiche rose (65), Un paese senza (80), Mekong (94), Lettere da Londra (97), Paesaggi italiani con zombi (98), Marescialle e libertini (2004). Ultimo libro: Dall’Ellade a Bisanzio (Adelphi, 2005) • Un nonno presidente del partito liberale di Voghera, una bisnonna che a fine
Ottocento produceva latte e formaggio nel Lodigiano. Il padre, farmacista, lo
indirizzò verso solidi studi giuridici («Il mio maestro è Gadda, forse perché anche lui non ha fatto Lettere») • «Consigli per Kulturkritiker che aspirino all’eccellenza. Nascere in una piccola città, magari Voghera, per poterne lanciare qualche decennio dopo la Casalinga.
Frequentare la stessa scuola dello stilista Valentino, quasi coetaneo, e perciò durante l’ora di ricreazione mettere le basi di un’amicizia che fra tartine e sfilate continua ancora oggi. Fare parte di una
generazione che non dovendo perdere tempo né con la guerra né con tv e computer “per anni e anni ha letto un libro al giorno, anche due”, onde suscitare lo stupore dei giovani e l’invidia dei vecchi, compreso Andrea Zanzotto che la confessa. Andare alla Scala
negli anni in cui una Callas già leggendaria cantava quasi tutte le sere» (Camillo Langone)
• «La mia vita non è stata nulla di così speciale, è quella di uno nato negli anni Trenta che ha fatto l’università a Milano, in quella Milano dove c’erano grandi compagnie teatrali. La Scala presentava ogni anno 25 spettacoli
nuovi con Maria Callas, Herbert von Karajan e Luchino Visconti. In una stessa
sera si poteva scegliere tra la Scala, il Piccolo Totò al Teatro Nuovo e la Wanda Osiris al Lirico. Per non parlare di poeti,
scrittori, intellettuali che animavano la vita culturale di Roma e Milano.
Cominciamo dal rapporto con i grandi vecchi della letteratura, personalità monumentali che mi hanno insegnato molto: io provenivo dai libri di Diritto
internazionale, non avevo fatto studi letterari. Personaggi come Gadda, uomo
difficile e solitario, l’unico verso il quale ho provato qualcosa di simile alla timidezza; o come
Palazzeschi, un capolavoro di ironia; o come Comisso, simbolo della libertà totale e dell’edonismo sorridente. Esempi indimenticabili come quello di Mario Praz, capace di
intrecciare tanti fili, di occuparsi di letteratura e di pittura, di Laurence
Olivier e di Merle Oberon, di musica ma anche di arredamento: “Ma come? Un cattedratico insigne che si occupa di comò?”, diceva qualcuno in un’epoca in cui l’università italiana era piena di eruditi specializzati che però non distinguevano il boogie woogie dal
Rigoletto. è quell’intreccio di storie, di immagini, di suggestioni che ti fa pensare a un quadro
mentre leggi un libro il cui ritmo ti ricorda la musica di uno spettacolo visto
a Londra o a Broadway. Eravamo una generazione molto curiosa, molto
sperimentale. Con Calvino, con Pasolini, con i Manganelli, Testori, Ottieri,
Malerba e La Capria si usciva quasi ogni sera. Eravamo poveri ma si andava
moltissimo a teatro, al cinema. L’arte l’ho conosciuta andando a vedere le grandi mostre con critici come Cesare Brandi e
Giuliano Briganti, facendo visita a Roberto Longhi nella sua casa fiorentina
fra gli ulivi. Si parlava, si discuteva da Milano a Roma, dal bar Giamaica di
Brera alla trattoria di Cesaretto di via della Croce, dal festival di Spoleto
alla Biennale Musica di Venezia. Lì, ci si arrivava alla fine di settembre, dopo l’agosto in America o in Grecia, e con tutte le B: Luciano Berio, Cathy Berberian,
Pierre Boulez, Sylvano Bussotti. Assistevamo alle prime esecuzioni assolute di
opere musicali: capitava di ascoltare quella di un coetaneo come Berio o del
vecchio Stravinskij oppure cose dei viennesi del Novecento mai sentite prima. A
ripensarci, quel che era veramente divertente era il fatto che nessuno di noi
era qualcuno. Nel gruppo c’erano Giovanni Urbani, Dudù La Capria, Franco Zeffirelli, Piero Tosi, Mario Missiroli, Sandro Viola, Mauro
Bolognini. E poi le nostre inseparabili Franca Valeri e Adriana Asti che con
Nora Ricci formavano un trio straordinario di spiritose. Che strano! Mai
conosciuto un attore di sesso maschile con senso dell’umorismo. Non ne avevano né Romolo Valli né Giorgio De Lullo. E Luchino, poi, con i suoi amici e i suoi attori aveva il
tono di un signorotto con i dipendenti. Anche Giorgio Strehler era così. Il concetto era: o aggettivi con i superlativi o non siamo più amici. D’altra parte, gli italiani non sono mai stati un popolo dotato di humour. Pur
essendo degli sconosciuti, ognuno era già quello che sarebbe diventato. E non appena ci si conosceva, ci si riconosceva
subito. Perché? Mah. Facevamo un sacco di colazioni, allora usava molto. E alle sette andavamo
alla redazione del Mondo, che era il salotto culturale e con Mario Pannunzio,
Sandro De Feo e Nicola Chiaromonte sceglievamo un teatro, e dopo: a via Veneto.
Quando Federico Fellini cominciò a girare
La dolce vita ogni sera arrivava il suo segretario a dirci che il maestro ci pregava di
andare sul set a impersonare noi stessi. E noi, ogni sera: mai. Figuriamoci se
avevamo voglia di passare la notte ad aspettare il ciak del maestro e far poi
magari una figura ridicola» (da un’intervista di Denise Pardo) • «Oggi è il nome stesso di intellettuale che lascia perplesso, mentre il ruolo di un
medico è fare bene il medico, il ruolo di un intellettuale è parlare del ruolo di intellettuale. Il mio ruolo è scrivere libri» • In teatro non ha mai sfondato. «La mia Carmen a Bologna è stato il più grande flop degli anni Sessanta. Il sovrintendente Carlo Badini, che poi andò alla Scala, non avendo nessun regista disposto a rischiare, mi chiese di darne
una rappresentazione non convenzionale. Invitai Roland Barthes, che non era
ancora Roland Barthes, per la drammaturgia, Vittorio Gregotti per le
architetture, e i costumi li affidai a Giosetta Fioroni, che li ideò alla maniera della scuola pop di piazza del Popolo, ispirandosi a Mario
Schifano e Franco Angeli. Ci furono fischi inauditi. Dopo lo spettacolo, con
gli Scalfari, i Parise, i Feltrinelli, Gaia Servadio e tutti gli amici arrivati
a fare la claque consumammo una gran festa del flop. Altro disastro fu allo
Stabile di Roma con la commedia di Osborne
Prova inammissibile con Tino Carraro. La storia era tipica di quegli anni: il protagonista è nel suo letto, ma tutto si svolge nella sua mente. In scena c’era un enorme salotto un po’ noioso tipo salone di banca, luci a intermittenza secondo il ritmo del respiro,
aaah, aaah, con un contaminuti tic tac con il battito cardiaco. Gli spettatori
erano allibiti» • Come giornalista iniziò al Giorno: «Avevo legato molto con Murialdi, il caporedattore, ma non con Bocca, che credo
mi considerasse frivolo, e neppure con il direttore Pietra. Era stato compagno
di università di mia madre e di fronte ai redattori allibiti, scherzando ma non troppo, mi
diceva: “Se usi troppe parole straniere e troppe citazioni, dico alla mia amica Gina che
ti prenda a sberle!”. Al Corriere mi portò Alfio Russo, che mi affidava elzeviri e brevi corsivi, lunghi mezza matita. Per
prima cosa Spadolini mi informò che erano aboliti. Quanto agli elzeviri, li avrebbero scritti solo accademici
della Crusca»
• Nell’83 fu eletto alla Camera nelle liste repubblicane, e fino all’87 fu tra i deputati più presenti: «Legai molto con i miei vicini in commissione: Adolfo Sarti, di Cuneo, ministro
importante e uomo coltissimo, e Michele Zolla, che poi lavorò al Quirinale con Scalfaro. Di fronte c’era Natalia Ginzburg, che smistava tutte le carte a me: “Fai tu tutto il turismo e spettacolo...”. Detestavo il Transatlantico, i divani, i baci e abbracci tra panzoni, le
passeggiate sottobraccio alla buvette. Con Sarti e Zolla ci facevamo il caffè alla macchinetta. La Iotti era scrupolosissima: ascoltava tutti, anche gli
ostruzionisti, senza farsi mai sostituire; contava i minuti, al massimo 45, e
al quarantaseiesimo scampanellava. Una vera preside»
• «Fra le diverse cose che ho fatto, il deputato non è stata tra le più straordinarie. Ma ho lavorato in modo scrupoloso per tutta la legislatura. Chi
viene eletto non appartenendo alla nomenklatura non viene richiesto di un
know-how professionale, ma solo di mettere il dito sul tasto della votazione.
Il fatto di non poter dare un contributo professionale in base alla propria
esperienza è frustrante. Nelle letterine varie e nei “Rap” restituisco alla società civile l’esperienza che ho avuto».
CRITICA «Ritengo che Arbasino sia il più grande scrittore italiano vivente. Il più intelligente, quello che ha fatto le scelte più ardite, evitando ogni ricerca di consenso. Arbasino non ha mai strizzato l’occhio a nessuno. Oltreché colto e intelligente, ha una forte struttura morale. è riuscito a imporsi nonostante la sua antipatia (perché può essere molto antipatico) e l’asprezza della sua scrittura. Una volta gli dissi, e voglio ripeterlo, che la
sua scrittura, come la grande cucina francese, sa sempre un po’ di merda» (Angelo Guglielmi)
• «Curiosissimo, poliedrico, osservatore del bel mondo, cronista mondano a suo
modo, narratore incapace di pensare ai suoi libri come qualcosa di dato, di
intoccabile. Ne sanno qualcosa alla Adelphi cosa voglia dire mandare in
tipografia le bozze corrette da Arbasino. Vere e proprie riscritture di
centinaia di pagine. Ha cancellato il tempo, avvicinando il passato e il
presente, schiacciandoli in una dimensione stilistica scarnamente barocca.
Continua a girare il mondo da un museo all’altro, da un concerto all’altro, come a perdersi in un tour intellettuale che non ha inizio e fine, a
sublime disprezzo di un mondo di grammatiche perdute, di ignoranze indotte, di
sciocchezzai ripresi ovunque. Compreso quello stracitato “signora mia”: giochetto diventato l’icona di tutte le volgarità del mondo» (Roberto Cotroneo celebrandone i settant’anni)
• «Un vuoto esercizio di sputo sul mondo» (Tempi) • «Anticomunista e avversario del politicamente corretto senza essere di destra.
Pronto a intervenire nel dibattito civile senza essere di sinistra» (Aldo Cazzullo).