Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
ANCELOTTI
Carlo Reggiolo (Reggio Emilia) 10 giugno 1959. Allenatore, ex calciatore. «L’allenatore di calcio è il più bel mestiere del mondo. Peccato che ci siano le partite».
VITA DA CALCIATORE Lanciato dal Parma. Con la Roma ha vinto uno scudetto (1982-83) e perso una
finale di coppa dei Campioni (1983-84), con il Milan ha vinto due scudetti
(1987-88 e 1991-92), due coppe dei Campioni (1988-89, 1989-90), due coppe
Intercontinentali (89, 90). Con la Nazionale (sette presenze e un gol) è arrivato terzo ai Mondiali del 90 • Il padre Giuseppe era mezzadro: «Ha lavorato una vita, si è spaccato la schiena in campagna. Io ero piccolissimo, ma ricordo quando veniva
il padrone a dividere il raccolto. “Questo è mio, questo è tuo”. E divideva come piaceva a lui. Anche con le galline: entrava nel pollaio e si
prendeva le più belle, le più grasse. “Voglio questa, quella e quella”. Papà non mi ha mai sgridato e non mi ha mai picchiato. è la verità, nemmeno una volta. E io ero vivace... Non sapeva dove picchiarmi, per lui ero
tutto buono. Ero un balocco di carne. Delegava mia madre e diceva: “Picchialo tu, dove prendi prendi”»
• Inizi nelle giovanili del Reggello: «Sulla schiena ha il numero nove, ma si capisce subito che va in campo per
ragionare e coordinare. Anche perché la velocità non è esattamente il suo forte. E lui, che ha già imparato a riflettere sulle cose, capisce al volo che vale la pena arretrare il
raggio d’azione, rendendosi utile a centrocampo. La Reggiana lo prova ma non se ne fa
niente. Si fa avanti il Parma. è il luglio del 75, Carlo ha appena compiuto sedici anni. Il tecnico del
Reggiolo, Grolli, ha una passione per Bocelli della Reggiana. Il giocatore vale
250.000 lire, a Reggio decidono che l’affare si può concludere, e in cambio chiedono la punta Fava e il giovane Ancelotti. Che
piace parecchio a Bruno Pedraneschi, il padre di Giorgio, che da tempo sta
rifondando il settore giovanile della società. Per la prima volta Carlo si allontana da via Vallicella, da Reggiolo, da
Cecilia e Giuseppe, genitori che hanno cresciuto quel figlio con princìpi semplici. Va a vivere in collegio dai salesiani, e inizia una vita da
globetrotter padano: allenamenti a Parma, studi a Modena, dove frequenta l’istituto tecnico industriale, puntate a Reggiolo il sabato. In campo si fa
strada: i primi ad accorgersene, nel tempo, sono i tecnici che ne affilano le
doti, da Corelli a Mora. Sono anche quelli che lo traghettano in prima squadra.
è un Parma di serie C, ma con forti ambizioni di crescita. Dopo l’esordio nella stagione 76-77, e le ventuno presenze (con otto reti) dell’anno successivo, nel 78-79, Ancelotti è diventato un tassello fondamentale della squadra che cerca un posto ai piani
superiori del calcio. In panchina è arrivato Cesare Maldini, che ha intuito le doti di centrocampista di Carletto
ma anche il suo fiuto per il gol, e lo schiera come attaccante arretrato alle
spalle delle punte di ruolo, Bonci e Scarpa. Il secondo posto conquistato nel
girone A della C1 porta il Parma allo spareggio. A Vicenza, contro la
Triestina, il diciannovenne Ancelotti è l’eroe della promozione: sull’1-1 segna la doppietta che regala la Serie B al Parma. Quel giorno, in tribuna
al Menti, c’è lo stato maggiore della Roma al completo: il presidente Viola, il tecnico
Liedholm, il ds Moggi. Liedholm vuole a tutti i costi il gioiellino del Parma,
ma non è il solo. Le mani avanti le ha messe anche l’Inter, che addirittura lo ha vestito di nerazzurro in un’amichevole contro l’Hertha Berlino. Sembra fatta, ma a Milano temporeggiano e la Roma va avanti.
Trattativa estenuante, il presidente del Parma Ceresini e il ds Borea
vorrebbero portarsi il campioncino tra i cadetti, ma Viola dà carta bianca a Moggi che spara alto: valutazione un miliardo e mezzo, per l’appena ventenne Ancelotti. Nelle casse del Parma finiscono 750 milioni per la
metà del cartellino. Sembra una follia, sarà un colpo vincente» (Marco Tarozzi)
• «Ricordo che io e Giovannelli eravamo i più giovani del gruppo e scalpitavamo perché volevamo andare a vivere in una casa in centro a Roma. Liedholm, con molta
severità, ci disse che per noi c’era il centro di Trigoria e quella sarebbe stata la nostra casa. Roma è pericolosa per un ragazzo, diceva» • Esordio in serie A contro il Milan: «Me la facevo sotto. Il Milan era campione d’Italia, io un ragazzo. A un certo punto Bruno Conti fa un cross perfetto,
Albertosi esce e tocca e mette il pallone proprio davanti ai miei piedi. In
quel momento ho pensato tutto. Al gol, al giro sotto la curva, ai miei amici al
paese. Chiudo gli occhi e tiro la bomba: il pallone sbatte contro la faccia di
Albertosi. Finisce zero a zero» • A Roma, oltre a vincere lo scudetto, subisce gravi infortuni: il 25 ottobre 81
un contrasto con Casagrande, mediano della Fiorentina, gli provoca una
distorsione al ginocchio destro con interessamento dei legamenti; avviata la
fase di recupero, nel gennaio dell’82 si rompe nuovamente i crociati, nuova operazione e niente mondiali (quelli
vinti dagli azzurri). Altro infortunio il 4 dicembre 83, Juventus-Roma, uno
scontro con Cabrini gli distrugge il ginocchio sinistro e lo costringe ad una
lunga inattività che lo tiene fuori dalla corsa giallorossa in coppa Campioni, che culmina nella
finale persa in casa ai rigori contro il Liverpool. Nell’87, il passaggio al Milan: «La verità è che il compianto Dino Viola, presidente giallorosso, era convinto di avere
mollato una bufala al suo giovane collega Silvio Berlusconi. Le ginocchia di
Carletto scricchiolavano (“Sono pieno di viti e di bulloni” scherzava lui), i bene informati lo davano già alla frutta... Faceva il capopopolo. Prima di ogni partita aveva un’abitudine bizzarra: con Maldini, Tassotti e Filippo Galli preparava uno strano
intruglio in un pentolone: Coca Cola, Polase e zucchero. Lo chiamava “il beverone”. Poi, scolando dal bicchiere quella porcheria, arringava i più giovani compagni: “Queste sono le tre tattiche della partita di oggi: rullo e tamburo,
schiacciasassi e tritacarne”. Ogni volta lo stesso stravagante e goliardico rituale» (Alberto Costa)
• «Sacchi m’ha affascinato subito. Aveva idee innovative; come prima le aveva avute Nils. Mi
hanno impressionato la serietà e la voglia di lavorare di Arrigo. Lui poi è stato quello che mi ha inventato nel nuovo ruolo di centrale davanti alla
difesa».
VITA DA ALLENATORE Attualmente allena il Milan, squadra che ha guidato alla vittoria nella
Champions League e nella coppa Italia 2002-2003 e allo scudetto 2003-2004. Era
il vice di Sacchi ai Mondiali del 94 (che l’Italia concluse al secondo posto), ha portato in A la Reggiana, un secondo posto
(dietro la Juve) con il Parma, due (dietro Lazio e Roma) con la Juve. La frase
di testa è il suo motto preferito, ma non ne è lui l’autore: la diceva sempre Nils Liedholm
• Dopo l’esperienza come vice di Sacchi, la prima panchina fu quella della Reggiana: «Andammo a Pescara ad inizio stagione e ci fecero a pezzi. Giampaolo andava via e
segnava da tutte le posizioni. Ricordo che in pulman, la sera, scuotevo la
testa e dicevo che era finita, non era il mestiere mio. Per fortuna avevo due
collaboratori più esperti che mi dissero di stare calmo, stavamo lavorando benissimo, i risultati
sarebbero arrivati. Avevano ragione loro»
• I dirigenti della Juve lo esonerarono (aveva un altro anno di contratto) «perché, come dice Cocciante, lo consideravano “troppo buono e qui ci vuole un uomo”. Il fatto è che non è affatto buono nella comune accezione calcistica, cioè “pirla”. è una persona perbene, educata e disponibile, tanto da invitare, il giorno dopo
il suo licenziamento dalla Juve i giornalisti a casa sua e offrire loro un
posto dove raccontare il suo addio e pure generi di conforto. I suoi colleghi
avrebbero sciolto i cani» (Roberto Perrone)
• «Quando sento dire che sono troppo buono con i giocatori, che sono ancora troppo
giocatore, per cui li rispetto troppo, non mi arrabbio mai abbastanza. Mi dà fastidio perché è un cumulo di cose sbagliate e soprattutto non vere. è vero che ho un ottimo rapporto con i miei giocatori; è vero che li rispetto, ma rispettare non significa subire. E sono sempre stato
molto rispettato dai giocatori nonostante con qualcuno avessi giocato anche
insieme. è umiliante doversi difendere da sciocchezze del genere. Come se fosse
obbligatorio dire sempre parolacce per essere credibili e vincenti. Sono
stupidaggini vere»
• «Il mio dogma è: 4 difensori e 3 centrocampisti. Hai più copertura al centro e più varianti in attacco rispetto al 4-4-2, che è più prevedibile. Poi, se usi una o due punte, è meno importante» • Su questo, contrasti con Silvio Berlusconi, che dice: «Due attaccanti sono il punto di partenza, se si vuole fare spettacolo. Gliel’ho ben spiegato, ad Ancelotti. Il mio non è stato un suggerimento, non è stato un diktat, e nemmeno un’uscita goliardica. Quel che ho detto, quello che dico è un’esigenza. Che, fra l’altro, toglie ad Ancelotti un problema non lieve. Ora che giocherà sempre con due punte, quando andrà male potrà sempre difendersi: me l’ha detto il presidente. E poi avrà anche un assillo in meno, un assillo che spesso lo fa soffrire, nel dover
scegliere fra Kakà e Rui Costa». Questo diktat (febbraio 2004) provocò curiose ricadute politiche: «Ora è il caso che il presidente Berlusconi chieda qualche consiglio politico a
Carletto Ancelotti. Forse non sarebbe male» (Ferruccio De Bortoli), «Ancelotti in Parlamento» (Enrico Letta), «Visto quel che sta succedendo da quando c’è Berlusconi al governo non so neppure se basterebbe Ancelotti ministro» (Gianni Rivera). Alberto Costa, sul Corriere della Sera, calcolò che Ancelotti, schierando due attaccanti, aveva perso punti in 10 partite su 37
e ne aveva vinte 16. Nelle 9 gare in cui aveva giocato a una punta, aveva
ottenuto quattro vittorie e un pareggio: nelle altre quattro partite s’era «convertito con successo» alla formula a due punte. «Come dire che potrebbe avere ragione Silvio Berlusconi ma che non ha torto
neppure Ancelotti».
VITA PRIVATA è sposato con Luisa, famosa per il brevetto da elicotterista. Si conobbero quando
anche lei giocava a pallone (era stata portiere della Roma, in serie A, e poi
del Parma in B). Hanno fatto due figli, Katia e Davide. Si sono anche fatti una
casa a Sharm el Sheikh sul Mar Rosso, dove vanno appena possono.
CRITICA «Era un tecnico anche quando giocava. In mezzo al campo dirigeva le operazioni.
Aveva grandi conoscenze tattiche. Lo sapete che mi diceva sempre Rijkaard?
Veniva da me e faceva: “Guardi, mister, che il nostro regista è Carletto, non sono mica io”. Il gioco passava sempre dai piedi di Ancelotti. E poi lui è stato bravo a trasportare queste conoscenze nel nuovo lavoro» (Arrigo Sacchi) • «Quando Bearzot lo fece esordire in Nazionale, a 21 anni, dicevano che era troppo
giovane. Quando Sacchi lo volle al Milan, a 28 anni, dicevano che era troppo
logoro. Quando la Juve gli diede il benservito come allenatore dopo due secondi
posti, dicevano che era troppo buono. Quando Galliani lo chiamò alla guida del Milan, dicevano che era troppo amico dei giocatori. Nella lunga,
e vincente, carriera di Carlo Ancelotti, c’è sempre stato un “troppo” che lo ha inseguito, in campo e in panchina. Un’ombra scomoda, ma soprattutto ingiusta, perché se c’è stato un giocatore prima e un allenatore poi, dotato di equilibrio nelle parole
e negli atteggiamenti, lontano dagli eccessi di qualsiasi genere, è stato ed è ancora proprio Ancelotti. Saggio fin da giovane, incapace di fingere, capace
invece di far valere la calma e non l’arroganza come virtù dei forti, non a caso il tecnico rossonero confessa in Gazzetta di stimare
soprattutto Mazzone, guarda caso un altro che si chiama Carlo, o Carletto, come
lui. E così, con grande naturalezza, confessa i suoi obiettivi e i suoi sogni, a cominciare
da quello di rimanere al Milan a vita. Romantico al punto giusto, senza
sconfinare nell’utopia, Ancelotti non nasconde però quel lussuoso desiderio alternativo, chiamato Nazionale, con una panchina in
Spagna come carta di riserva, anche se prima ci sono altri traguardi da
tagliare» (Alberto Cerruti)
• «Fu un grande centrocampista, di quelli abituati a caricarsi la squadra sulle
spalle e lottare per tutti fino allo stremo, è un grande allenatore e sarà sempre una delle migliori persone espresse dal calcio. Buono, onesto, sincero,
appassionato, con una dote rara fra le star di questo circo traboccante di
profeti, condottieri di voce dura, maghi, vanesi: il senso della misura. Capace
di autocritica, di autoironia. Disposto a riconoscere i meriti altrui quando
perde, senza aggrapparsi— di solito— a giustificazioni puerili. Un tranquillo uomo di campagna, vagamente
tiranneggiato dalla sua vulcanica signora, un tipo sereno, umanamente solare.
Molto per natura, un po’ per l’esempio e gli insegnamenti di Liedholm, fra i maggiori maestri di cultura
sportiva. Come tecnico offre un rendimento di straordinaria regolarità: le sue squadre vanno quasi sempre vicine al massimo traguardo. O vincono o
finiscono seconde. Una sorta di garanzia per il club. Non è napoleonico. Forse qualche secondo posto, in passato, poteva essere trasformato
in successo. Gli ho più volte rimproverato due limiti: un eccessivo rispetto per le gerarchie dello
spogliatoio anche contro l’evidenza, una mancanza di prontezza nel correggere l’assetto tattico e nell’utilizzare i ricambi. Dal primo difetto è guarito o sta guarendo: maggior turnover, più importanza alla forma dei singoli. Sul secondo sta lavorando: non è facile cambiare natura. L’accusai di aver sbagliato con il Liverpool ed in altre partite cruciali in cui
non seppe fronteggiare i cambiamenti degli avversari. Nell’occasione fu probabilmente condizionato dagli ordini aziendali sul numero degli
attaccanti. Nell’emergenza, se la nave rischia di affondare, conta solo il capitano, non l’armatore. Ha prolungato il contratto con il Milan, nonostante avesse offerte
prestigiose. Ma Carlo è abitudinario: casa ed amicizie gli mancherebbero troppo. Eppoi restare così a lungo nel Milan è un vanto, una vittoria su chi ogni settimana lo dava per licenziato. Può esserne il Rocco moderno» (Giorgio Tosatti).
FRASI «Sono dei Gemelli e quelli del mio segno hanno doppia personalità».
VIZI Fuma: «Avevo il ginocchio rotto, ero sul lettino, venticinque anni e tanta tristezza
addosso. Il mio compagno di stanza, pure lui con il gambone alzato, disse: “Tu fumi?”. “Ma che, sei matto?, so’ giocatore io”, dissi. “Dai, prendi, è americana”, disse il mio compagno. L’accese con il cerino. Non ho più smesso. Sono un clandestino e non ce la faccio a smettere. Ho provato un sacco
di volte, ho lanciato via il pacchetto, accartocciato, pestato. Basta, questa è l’ultima. Sul serio, fine, lo giuro. Dico sempre così. Poi invece... Due fette di salame, un bicchiere di rosso, un cafferino... e la
cerchi. La cerchi prima della partita, la cerchi dopo. Sono sceso a quota
quindici. Al giorno, quasi tutte dopo pranzo e dopo cena. Spero di tornare ai
tempi in cui giocavo, alla Roma e al Milan. Allora me ne pippavo tre-quattro al
giorno».