Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 03 Domenica calendario

MATTIOLI E CUCCIA, VITE PARALLELE

Per oltre venticinque anni è intercorso fra Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia un sodalizio professionale che li ha visti agire inizialmente di concerto e poi, col tempo, non senza forti divergenze d’opinione (ma non al punto da incrinare i loro rapporti di reciproca stima e amicizia), al centro del mondo finanziario ed economico italiano. Come emerge dal profilo biografico parallelo, tracciato con maestria da Sandro Gerbi, le loro strade s’erano già incrociate alla fine degli anni Trenta e da allora fra i due s’era stabilita una certa familiarità: anche se Mattioli più anziano di dodici anni, volontario nella Grande Guerra, apparteneva a una generazione ben diversa rispetto a quella di Cuccia e vantava inoltre un’esperienza di prim’ordine. Nel settembre 1931, nel pieno della Grande crisi, era stato infatti lui, a quel tempo giovane dirigente della Commerciale, a suggerire la soluzione che, sfociata poi nella creazione dell’Iri, aveva salvato dal precipizio, insieme alla Comit, le altre due banche "miste" di deposito e d’investimento (il Credito Italiano e il Banco di Roma) e a evitare perciò anche il crollo di numerose grandi imprese di cui questi tre istituti possedevano grossi pacchetti azionari. E, dopo aver auspicato che lo Stato assumesse – pur nel rispetto dell’iniziativa privata – un ruolo d’indirizzo e regolamentazione del sistema economico, egli aveva condiviso la riforma bancaria del 1936 così venne stabilita una netta separazione fra l’esercizio del credito a breve termine e quello del credito a medio-lungo termine.

Si spiega perciò come Cuccia avrebbe continuato a nutrire una sorta di timore reverenziale nei riguardi di Mattioli (tanto che non riuscirà mai a passare dal "lei" al "tu" nelle loro relazioni), sebbene ciò non lo tratterrà dal far valere a tempo debito la sua piena autonomia nell’ambito del loro partenariato. D’altra parte, s’era già distinto come un giovane di notevole talento quando nell’ottobre 1938 venne assunto dalla Comit. Dopo essersi fatto le ossa all’Istituto per le esportazioni, era stato mandato in Etiopia perché estirpasse un giro di frodi e corruzioni nelle erogazioni di valuta e in questo suo compito non aveva esitato a scontrarsi col vicerè Rodolfo Graziani. Ciò che aveva deposto senz’altro a suo merito: tant’è che alla Commerciale era stato promosso fin dal gennaio 1939 a direttore nel Settore estero. Ad accreditarlo ulteriormente aveva concorso il suo matrimonio nel giugno successivo con una delle figlie di Alberto Beneduce.

Mattioli doveva comunque essersi convinto delle singolari doti personali di Cuccia, se l’aveva associato nello studio di un progetto ambizioso come quello di creare un istituto di credito mobiliare che provvedesse alla copertura delle esigenze finanziarie del sistema produttivo negli ardui tornanti della ricostruzione post-bellica. Era stato, peraltro, difficile ottenere l’autorizzazione a tal fine del governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi, che temeva si riproducesse lo stesso genere d’intreccio a doppio filo fra banca e industria, ossia quella specie di «mostruosa fratellanza siamese» (per dirla con Mattioli), all’origine in gran parte del dissesto economico avvenuto negli anni Trenta. Ma, alla fine, nell’aprile 1946 l’operazione era andata in porto, grazie al concorso di Comit, Credit e Banco di Roma alla costituzione di Mediobanca, affidata da allora nelle mani di Cuccia. Senonché, dopo che per una decina d’anni la banca di via Filodrammatici aveva operato in perfetta sintonia con quella di piazza della Scala, aveva poi cominciato a procedere su un binario diverso da quello originario. E ciò non tanto perché Mattioli e Cuccia fossero portati a scontrarsi, in quanto assai differenti per temperamento e inclinazioni: tanto era esuberante e disinvolto, e inoltre tendenzialmente ottimista, il primo; e invece, umbratile ed estremamente riservato, oltre che diffidente verso il suo prossimo, il secondo. E nemmeno perché fossero divisi quanto a orientamenti politici: seppur scettico e disincantato, al confronto di un "liberale anarchico" e aperto al dialogo anche con il Pci, come Mattioli, Cuccia era un uomo di ideali progressisti e legato a Ugo La Malfa, al pari del leader della Comit.

Ad affievolire la loro intesa era stata una crescente dissonanza sulle precipue connotazioni e finalità di Mediobanca. Per Mattioli, convinto da sempre che le banche dell’Iri, pur gestite con criteri privatistici, dovessero perseguire esclusivamente l’interesse dello Stato, la stessa regola avrebbe dovuto valere per Mediobanca, a cui esse avevano dato vita, non già come un semplice impiego di portafoglio. Tanto più in quanto egli riteneva che la Comit fosse garante per eccellenza di una funzione di pubblica utilità nell’esercizio del credito.

Per Cuccia, invece, Mediobanca avrebbe dovuto essere lasciata libera di operare come meglio credesse per assicurare alle imprese che giudicava meritevoli d’aiuto quelle risorse finanziarie che altrimenti non sarebbe stato per loro agevole, o risultato assai più costoso, reperire su un mercato dei capitali asfittico come quello italiano. Questa sua linea di condotta l’aveva portato a privilegiare i principali gruppi privati, benché non tenesse in gran considerazione alcuni loro esponenti. Di qui il sospetto che Cuccia agisse per ragioni di potere. Perciò, a giudizio di Mattioli, egli avrebbe dovuto, anziché assistere i propri clienti di maggior riguardo per divenire così il "patron" del capitalismo privato, indurli a procurarsi, attraverso adeguate emissioni azionarie, i mezzi che occorrevano loro. A sua volta, Cuccia replicava che le tre "BIN", accollando a Mediobanca una quota di finanziamenti alle loro clientele che avevano solo l’apparenza di crediti a breve termine, in quanto continuavano a essere rinnovati, tendevano di fatto a esercitare un credito a lungo termine. Mattioli aveva visto giusto nel temere, all’indomani della nazionalizzazione dell’energia elettrica, che la Edison e altre imprese espropriate non avrebbero fatto buon uso dei cospicui indennizzi riversatisi nelle loro casse. Un grave peccato, questo, a cui Mediobanca non poteva certo dirsi estranea.

Comunque sia la forzata uscita di scena dalla Comit di Mattioli nell’aprile 1972, per decisione del ministro Emilio Colombo avallata dal premier Andreotti, pose termine a questa diatriba, che Gerbi ha ricostruito in modo esaustivo. E ciò grazie al reperimento di alcuni documenti inediti (si legga sotto la lettera di rifiuto a Giulio Einaudi) e a testimonianze di prima mano (fra cui quelle di Cuccia stesso, raccolte nelle dirette e assidue frequentazioni nel corso degli anni).