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 2011  luglio 03 Domenica calendario

SCUSI, MI PUÒ INDICARE L’AGORÀ?

Doveva essere uno spasso girovagare per le strade di Atene al tempo dei filosofi antichi. Potevi incappare in Socrate che a bruciapelo ti rivolgeva domande imbarazzanti sul tuo mestiere (o più in generale su giustizia, bellezza, verità), dimostrandoti che non ne sapevi nulla e che lui – così gli aveva detto l’oracolo di Delfi – era assai più sapiente di te perché almeno «sapeva di non sapere». O altre volte era un calzolaio, o un suo discepolo, che, viceversa, conoscendo la sua saggezza, chiedeva a Socrate un consiglio. Per esempio se fosse meglio sposarsi o rimanere scapolo. La risposta che diede a un vasaio è rimasta leggendaria: «Qualunque scelta farai, te ne pentirai». Erano un po’ degli umoristi, i filosofi ateniesi. Praticavano un’arte, la parresia, che consisteva nel dire verità scomode in modo efficace e paradossale. Ai vasai, ma anche a re o imperatori, un po’ come avrebbero fatto dei buffoni di corte. Ma a proprio rischio e pericolo, come quando Diogene il Cinico, incontrando Alessandro Magno che, pieno di ammirazione per il filosofo, gli chiedeva che cosa avrebbe potuto fare per lui, gli disse: «Spostati dal sole, mi fai ombra».

Questo mio andare a spasso per Atene mi è ispirato dalla nuova Topografia di Atene di Emanuele Greco, che – tra i mille usi cui si presta – è anche un vademecum per ripercorrere alcuni luoghi mitici della storia della filosofia: l’Accademia, il Liceo, i giardini di Epicuro, il giardino delle Muse, la valle dell’Ilisso, la casa di Proclo e le dimore dei filosofi della tarda antichità. Seguiamone insieme qualche tratto, portandoci appresso un altro libro, Che cos’è la filosofia antica di Pierre Hadot (Einaudi), che più di ogni altro ci fa vedere quanto la vita pratica fosse parte integrante del pensiero, collocabile in luoghi determinati, e in vere e proprie scuole, come l’Accademia o il Liceo, o la Stoà, dove la vita in comune col maestro, l’osservazione diretta della natura, l’esercizio ginnico e quello militare, l’apprezzamento delle arti, la vita contemplativa e quella attiva, si compenetravano a vicenda.

Non è difficile vedere, dietro ogni scuola filosofica ateniese antica, l’interesse per la formazione dei giovani. Perché, come osserva Aristotele, «il destino degli stati dipende dall’educazione della gioventù». Ma dall’Accademia alla strada, ad Atene, il passo è spesso assai breve. Si prenda, ad esempio il brano platonico in cui Socrate spiega ad Alcibiade, allievo prediletto ma ribelle, come poter diventare un perfetto uomo di stato. Il percorso filosofico per l’acquisizione delle virtù necessarie a questo scopo parte dalla conoscenza di sé e dalla capacità di resistere al richiamo delle passioni. Poiché il corpo non può governare se stesso, è l’anima che deve sovrintendere alla buona vita dell’individuo. Il corpo è solo uno strumento di cui l’anima si serve per agire bene nella vita pratica. L’uomo virtuoso, dunque, utilizza il corpo come il calzolaio utilizza le forbici, il quale le usa per assolvere allo scopo di fabbricare scarpe e non fa delle forbici lo scopo stesso del suo agire.

Visto? Rieccoci di nuovo alla strada. E alle scoperte archeologiche. Socrate era legato da stretta amicizia a un calzolaio, un tal Simone, presso la cui bottega sostava e discuteva di filosofia per giorni interi, come riporta Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, stimolando le doti filosofiche dell’artigiano che lasciava da parte il lavoro per prendere appunti e per redigere, infine, ben 33 dialoghi, andati perduti, intitolati Dal ciabattino. Forse in questo modo Socrate riusciva a procacciarsi qualche paio di suole gratis. Però è certo che scavi archeologici svoltisi tra il 1933 e il 1953 hanno portato alla luce, in prossimità dell’Agorà di Atene, una bottega un tempo costituita da qualche stanza e da un portico in legno nella zona sud, che doveva costituire l’ingresso per i clienti di una bottega. Il ritrovamento di chiodi in ferro con testa circolare e occhielli d’osso per lacci di sandali, e di una coppa dedicata a un certo Simonos, fanno pensare si tratti proprio della bottega frequentata da Socrate. Invece il luogo da sempre individuato come la prigione di Socrate pare proprio non lo sia. Pazienza. Il luogo è ugualmente suggestivo e considerato quasi sacro.

Piuttosto complicata è la vicenda archeologica dell’Accademia platonica. Fu fondata da Platone nel 387 a.C. in un kepos (giardino) acquistato al suo rientro dalla Sicilia, dopo che, essendo stato reso schiavo dal tiranno siracusano Dionisio, il filosofo fu liberato mediante pagamento di un riscatto di trenta mine, la cui somma fu messa poi generosamente a disposizione dagli amici Dione di Siracusa e Anniceride di Atene per l’acquisto di un fondaco. La fama dell’Accademia nelle fonti antiche consentì di identificarne il luogo con relativa facilità, senza riscontri archeologici positivi. Almeno fino a che, dal 1930 al 1939, un architetto mecenate e archeologo autodidatta, un tal Aristophron, animato dal sogno di fondare un’università internazionale nel luogo dell’antica accademia platonica, non decise di dedicarsi allo scavo intensivo della zona. Lo scavo fu terminato tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso dall’archeologo Stavropoullos, che riuscì a scoprire la casa di Akademos. L’Accademia, così chiamata perché sorta in un luogo dedicato all’eroe eponimo Akademos, che vi ebbe dimora, doveva essere costituita da un Ginnasio destinato ad attività ginniche, da una grande Stoà, un edificio rettangolare aperto su una delle due fronti mediante un porticato, e infine un Peristilio quadrato, immensa corte colonnata di 40 x 40 m di perimetro, probabilmente destinata a uso di palestra. Il rompicapo più inquietante è che è stato recentemente riportato alla luce un altro edificio, al capo opposto di Atene antica, con le medesime caratteristiche. Quale dei due sarà il vero sito dell’Accademia di Platone?

Non è comunque difficile immaginare, nell’uno o nell’altro edificio, come si trascorressero le giornate: tra impegnative conferenze filosofiche nelle aule - peraltro testimoniate dal ritrovamento di lavagne iscritte risalenti all’età classica -, discussioni all’aria aperta, passeggiate per i boschi attorno, esercizi ginnici eseguiti in totale nudità e preceduti dal rito dell’unzione dei corpi degli atleti con oli essenziali. I giovani erano distribuiti in due cicli di studi: i paides, dai 12 ai 15 anni; e i neaniai, dai 16 ai 18. Poi, i giovani efebi si dedicavano soprattutto alle esercitazioni militari. La filosofia svolgeva un ruolo fondamentale nella formazione dei giovani, che apprendevano la virtù dall’osservazione diretta del loro ginnasiarca o scolarca, il maestro. Come annota Sesto Empirico, la vera scuola consisteva in uno "stile di vita" più che in un edificio nel quale si imparava ad obbedire a dei dogmi: «se si dice che ad essere scuola è un modo di vita che segue un certo principio razionale, in conformità a ciò che vediamo, allora diciamo che c’è una scuola».

Tra i vari altari che si trovavano nell’Accademia platonica, come anche quelli dedicati a Prometeo e alle Muse, il più imponente e importante, tale da aggiudicarsi una locazione all’ingresso, doveva essere - ma non ne è rimasta traccia - l’altare a Eros. Sappiamo dai dialoghi Simposio - che contiene il celeberrimo mito delle creature androgine poi divise da Zeus in maschi e femmine - e Fedro quanto l’amore sia filosoficamente importante nel pensiero platonico. È sempre nel Fedro platonico che ritroviamo una descrizione di come Socrate e uno dei suoi allievi fossero soliti trascorrere un pomeriggio estivo, discutendo di filosofia e sfuggendo alla calura per trovare frescura lungo le sponde del fiume Ilisso, che a un certo punto si immette in un piacevole bosco ombroso. Il celebre locus amoenus, che tanta fortuna ha poi avuto nella successiva letteratura filosofica ciceroniana e rinascimentale, pare, non fosse un luogo del tutto inventato.

L’altra grande scuola ateniese, com’è noto, era il Liceo fondato nel 336 a.C. dall’allievo di Platone, Aristotele di Stagira. Mentre esistono differenze, tra Accademia e Liceo, nelle materie di studio teorico, non si conoscono precise differenze nello stile della vita in comune tra allievi e maestri, che appare molto simile sia nell’Accademia platonica sia nella scuola artistotelica. Quest’ultima era detta anche Peripato (perì: intorno + pous: piede: cammino intorno) per l’abitudine, che era anche dei platonici, di conversare di filosofia camminando immersi nella natura circostante la scuola. Certo è che Aristotele acquisì un fondo nell’ampia area boschiva prossima ad Atene, la quale era da tempo dedicata ad Apollo Liceo (cacciatore di lupi). Scavi archeologici hanno riportato alla luce resti della palestra del ginnasio del Liceo, esistente già in precedenza, citata nel dialogo platonico Eutidico. E anche la struttura scolastica, dove si assisteva alle lezioni, è stata rinvenuta. Con uno sforzo di immaginazione, proviamo ad ambientare qui la pratica educativa del maestro di Alessandro. Aristotele credeva fermamente in una scuola che fosse gestita dallo stato, a partire dai 12 anni circa, dopo i primi anni a carico della famiglia. Al curriculum dell’Accademia (grammatica, retorica e dialettica), che lui stesso aveva frequentato, aggiunse lo studio di quelle che oggi chiamiamo "scienze naturali" - allora dette technai, arti - dalla mineralogia alla fisica, dalla biologia alla astronomia. Alla logica (analitica) egli dette grande spazio, essendo questa la disciplina più importante di tutte, quella che serve a impostare il ragionamento su qualsiasi tipo di oggetto di ricerca. La filosofia per Aristotele è "liberale", nel senso che tende a rendere l’uomo "libero", ovvero padrone di sé, del suo pensare e del suo agire.

Tutti i genitori di Atene antica ambivano a iscrivere i loro figli in una delle scuole filosofiche in voga ai loro tempi. Ma, se abbiamo ben capito cosa succedeva nei luoghi che abbiamo or ora visitato, non lo facevano con gli stessi intenti di Strepsiade, un vecchio contadino perseguitato dai creditori, personaggio della commedia di Aristofane Le Nuvole, che manda il figlio Filippide a scuola di filosofia – nientemeno che da Socrate! – affinché egli però impari l’arte dei "discorsi peggiori", cioè di quelli capaci di far sembrare la verità falsa e la falsità vera, e di ottenere ragione contro i creditori in tribunale. Aristofane si indigna contro i sofisti (che si facevano pagare per le loro lezioni) e contro Socrate, facendo di tutta l’erba un fascio. A noi invece piace continuare a pensarlo mentre passeggia ad Atene per i mercati stracolmi di merce di ogni genere e affermare stupefatto: «Guarda quante cose... che non mi servono!».