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 2011  luglio 03 Domenica calendario

L’ILLUSIONE AMARA DELLE GUERRE LAMPO - A

migliaia di chilometri da qui, lontano dalle spiagge dei bagnanti e dai matrimoni principeschi delle cronache rosa, c’è un’altra estate, implacabile e angosciosa, che divora le vite dei nostri soldati come il caporal maggiore Gaetano Tuccillo, uno dei tanti uomini del Sud nerbo delle Forze armate italiane schierate in Afghanistan.

In autunno gli americani e gli alleati entreranno nel decimo anno di una guerra che si è estesa oltre i confini, dentro al Pakistan, come dimostrano l’operazione Bin Laden e le dozzine di incursioni aeree quotidiane nella North West Frontier e in Waziristan. Un periodo così lungo da rimandare alle epopee belliche tra gli imperi settecenteschi, ma per l’Afghanistan è soltanto un terzo del lungo conflitto che si combatte dall’invasione sovietica del 1979.

Mentre tendiamo a dimenticare velocemente che anche le guerre balcaniche, con il loro corredo di massacri e distruzioni nel cuore dell’Europa, hanno occupato il decennio degli anni Novanta: e i conti non sono ancora del tutto chiusi. Le guerre-lampo, come dimostra anche il caso recentissimo della Libia - quando in marzo si pensava che Gheddafi cadesse in pochi giorni - non sono poi così frequenti.

Il soldato dell’Ariete è stato ucciso su una strada del Gulistan, che in antico persiano, il dari, la lingua della corte afghana, significa il giardino delle rose, a pochi chilometri da Bakwa, dove un anno fa, in settembre, era già caduto in uno scontro a fuoco il tenente Alessandro Romani della Task Force 45: la provincia di Farah insieme alla vallata di Shindand e all’altopiano di Bala Mourghab è uno degli avamposti più pericolosi, sulla linea del fuoco della guerriglia.

Il Gulistan, come del resto tutto l’Afghanistan, è un posto difficile anche da pensare. Il Gulistan è la polvere dell’Afghanistan, alzata a mulinelli dal vento, che penetra ovunque e avvolge l’orizzonte in un’atmosfera sospesa, cinerea, giallastra e allo stesso tempo abbagliante. Questo luogo, soffocante di giorno, pungente di notte, è un Far West dell’Oriente, teatro di agguati come quello di ieri, denso di insidie che si nascondono lungo la strada 522, in un paesaggio apparentemente immobile che il silenzio rende ancora più inquietante.

Questa è l’estate afghana dei nostri soldati, che arriva come un’eco lontana nei titoli dei giornali spiegazzati sotto gli ombrelloni. Il senso di questa missione sembra perdersi nel cuore di queste vallate sperdute e inafferrabili che hanno inghiottito gli Imperi e leggiamo le cronache con un sentimento di impotenza e frustrazione, neppure risollevato dall’eliminazione di Osama Bin Laden, quasi irrilevante sull’andamento della guerra contro i talebani.

Eppure là dobbiamo restare, almeno fino a quando non sarà possibile trasferire il controllo della sicurezza alle ancora fragili forze nazionali afghane. E forse neppure in quel momento la guerra si potrà dire vinta.

Alla ricerca di conferme elettorali, il presidente americano Obama punta a ridurre le truppe contro il parere dei suoi generali e tra gli alleati della Nato è sempre più forte la tentazione di chiudere in qualche modo la partita afghana, sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei tagli ai bilanci. Ma dimenticare l’Afghanistan, dove andammo con lo spirito tambureggiante di una guerra di civiltà contro il terrore e l’oscurantismo, non sarà un’impresa facile: un decennio è passato quasi in un lampo e abbiamo già trovato il modo, in maniera più sottile e ipocrita, di iniziare altre guerre.