Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 05 Martedì calendario

NEL PACIFICO UN TESORO DI TERRE RARE

Le terre rare non sono né terre, né rare. Sono diciassette elementi metallici della Tavola periodica, collettivamente battezzati da alcuni scienziati (perlopiù svedesi) d’inizio Ottocento, che li trovavano dispersi nel suolo in piccolissime quantità. Involontariamente, l’industria elettronica che fa grande uso di erbio, di neodimio o di disprosio per via delle loro uniche proprietà fisiche, ha riportato in auge il concetto: il 97% di queste sostanze metalliche che arrivano sul mercato, sono estratte e prodotte dalla Cina. La quale ha recentemente messo un tetto alle esportazioni. Quindi sono rare.

Ma dal Giappone arriva la conferma: quei metalli rari non sono per davvero. Sotto al mare, ci sarebbero riserve mille volte superiori a quelle sulla terra.

Ieri la rivista Nature Geoscience ha pubblicato la scoperta di un team dell’Università di Tokyo, guidato da Yasuhiro Kato, professore associato di Scienze della terra. I ricercatori nipponici hanno sondato l’oceano Pacifico, raccogliendo duemila campioni in 78 siti diversi e hanno trovato ingenti depositi di terre rare (ovvero i 15 elementi del gruppo dei lantanoidi, più lo scandio e l’ittrio) mescolati al fango sottomarino. «Secondo i nostri calcoli, un’area di un chilometro quadrato – dice Kato – potrebbe soddisfare un quinto del consumo annuo mondiale di questi elementi». Con cinque chilometri quadrati, la supremazia cinese andrebbe in fumo.

A detta dell’équipe giapponese, l’area più fertile sarebbe situata nelle acque internazionali che stanno fra le Hawaii e Tahiti. Tanto per dare un’idea, la distanza che le separa equivale più o meno alla larghezza degli Stati Uniti. «Dimostriamo qui – si legge nel paper di Nature – che le terre rare sono prontamente estraibili dal fango», e quindi dalle stesse navi che lo scavano sui fondali. «Siccome si ottengono con una semplice reazione nell’acido, pensiamo che il fango deep-sea rappresenti una riserva promettente». Musica per le orecchie dell’industria elettronica, ma anche per quelle del Giappone: se nelle risorse onshore di terre rare la Cina è il primo produttore, il Giappone è il primo consumatore (34%).

Però è ancora difficile capire se l’esplorazione delle terre rare offshore sia davvero fattibile. «Sono un geologo, non un economista», ha risposto Kato. «C’è chi dice che potremmo estrarre metalli dalla Luna, o dagli asteroidi», commenta Gareth Hatch, fondatore della società di consulenza Technology Metals Research. «In questo caso non è così difficile, ma è un’impresa simile»: le riserve indicate da Kato sono sotto a quattro o cinque chilometri d’acqua. Perdipiù, le concentrazioni di terre rare dello 0,2% stimate dal team nipponico, sono sì equivalenti a quelle di certe miniere cinesi a cielo aperto. Le quali «stanno in piedi economicamente solo perché è facile scavare la terra – ha spiegato Hatch a Nature – ma ci sono formazioni rocciose dove le concentrazioni sono superiori al 3%». Il che potrebbe contribuire, a rendere poco conveniente lo sfruttamento del fango del Pacifico.

Secondo lo Us Geological Survey, le riserve dei metalli preziosi per gli iPhone, per gli schermi a cristalli liquidi e pure per le turbine eoliche ammontano a 110 milioni di tonnellate e si concentrano in tre grandi Paesi: la Cina (55 milioni), la Russia (19) e gli Usa (13). Se le stime di Kato fossero confermate, sotto il Pacifico ci sarebbero 80, o forse 100, miliardi di tonnellate di terre rare.

Negli anni 80, il mondo consumava 30mila tonnellate di lantanio, cerio, europio e compagni. L’anno scorso ha superato le 112mila. E quando a fine 2010 la Cina ha annunciato che avrebbe tagliato del 35% le esportazioni, lo sfruttamento di nuovi giacimenti (in California, ad esempio) è letteralmente esploso. In Giappone, non a caso, è da poco entrato in azione il primo stabilimento per il riciclaggio, per recuperare quantità infinitesimali di metalli non preziosi – eppure indispensabili alla civiltà tecnologica – dai rifiuti elettronici. Secondo l’Istituto nazionale per le scienze dei materiali, nell’elettronica in disuso in Giappone si nascondono 300mila tonnellate di terre rare. Ovvero metalli di sempre più discutibile rarità.