Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 05 Martedì calendario

Il terremoto che ci svuota le tasche - Per la ricostruzione del terre­moto del Belice del gennaio 1968 lo Stato italiano nel corso degli undici anni successivi aveva spe­so 900 miliardi delle vecchie lire che rivalutate in euro attuali am­monterebbero a circa 5,8 miliar­di

Il terremoto che ci svuota le tasche - Per la ricostruzione del terre­moto del Belice del gennaio 1968 lo Stato italiano nel corso degli undici anni successivi aveva spe­so 900 miliardi delle vecchie lire che rivalutate in euro attuali am­monterebbero a circa 5,8 miliar­di. Un intervento talmente mas­siccio che a ventiquattro anni di distanza nel gennaio 1992 circa 1.500 famiglie vivevano ancora nelle baraccopoli.E oggi?C’è an­cora qualche falla da tamponare se è vero come è vero che nello stato di previsione dei ministeri dell’Economia e di quello delle Infrastrutture ci sono voci dedi­cate a questo cataclisma. Ogni anno il Tesoro si fa carico per oltre 10 milioni di euro del­l’estinzione dei mutui relativi al sisma che colpì le province di Agrigento, Palermo e Trapani. Al­tri 2,5 milioni arrivano invece dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Siccome 43 anni so­no un periodo troppo breve per completare un’opera di ricostru­zione vi sono specifici stanzia­menti in bilancio: due milioni per il completamento degli inter­venti e 507.026 euro per le opere di urbanizzazione primaria. In­somma, 25 miliardi delle vecchie lire per un evento così remoto non sono uno scherzo. Le nostre tasse servono anche a questo. Ma è troppo facile pensare che possa finire così. Perché esiste un apposito stanziamento di 20 milioni di euro che lo Stato devol­ve alle Regioni per farsi carico del­le assunzioni in eccesso di perso­nale pubblico a causa degli even­ti calamitosi che in Italia si sono verificati tra il 1968 e il 1984. Dal Belice all’Irpinia a tutte le altre piccole e grandi disgrazie i gover­ni d­ella Prima Repubblica rispon­devano in un modo solo: con qualche posto da impiegato pub­bli­co in più che continuiamo a pa­gare. E si tratta di una cattiva abitudi­ne che purtroppo si riscontra troppo spesso quando si analiz­za il bilancio dello Stato: aver spe­so prima e aver lasciato ai posteri il conto da pagare. È il caso dei 166 milioni di mutui che lo Stato rimborsa alla Cassa Depositi e Prestiti per interventi nel settore delle calamità naturali. Altri 21 milioni sono devoluti diretta­mente alla ricostruzione delle zo­ne terremotate. Non c’è solo l’Abruzzo ad aver bisogno d’aiu­to, c’è ancora da sostenere l’Irpi­nia. Se la ricostruzione dell’Aquila al solo Tesoro costa direttamen­te 350 milioni di euro più gli altri stanziamenti del Fondo interven­ti strutturali più venti milioni di minor Irap, in proporzione quel­lo che accadde nel novembre 1980 in Campania, Puglia e Cala­bria costa di più. Perché nel 2011 le erogazioni per questo capitolo ultratrentennale valgono 75,369 milioni di euro. Non è poco. Cifra che sale a 82 milioni per effetto delle compensazioni per il sisma del 21 marzo 1982 che colpì Cam­pania e Calabria (7,5 milioni). I terremoti in Italia non finisco­n­o mai e non solo perché è un Pae­se ad alto rischio sismico ma per­ché si continua a spendere anche molti anni dopo che essi sono av­venuti. Non a caso c’è un contri­buto di un milione per i sismi che nel 1984 colpirono Umbria, Cam­pania, Lazio, Abruzzo e Molise. E non si deve pensare maligna­mente che la provincia di Avelli­no sia stata aiutata più delle altre perché «feudo» incontrastato di Ciriaco De Mita, potentissimo se­gretario della Dc dal 1982 al 1989. Piuttosto è il caso di pensare che l’esser patria di un segretario po­litico o di un qualsiasi «pez­zo da novanta » della Pri­ma Repubblica era ga­ranzia che, in caso di emergenza, gli aiuti sarebbero arri­vati. E cospicua­mente. Come spiegare al­trimenti il fatto che il ter­remoto del 1972 di Ancona sia ancor oggi una fonte di spesa per lo Stato? Che si tratti della cit­tà natale di Arnaldo Forlani po­trebbe essere la risposta. Il mini­stero delle Infrastrutture ancor oggi finanzia gli interventi con 9,5 milioni direttamente mentre 20mila euro sono destinati al­l’istituto delle case popolari e 41.610 euro al fondo per gli ospe­dali delle Marche. Niente male. Va detto che i sismi si protrassero per tutto l’arco dell’anno 1972 pa­ralizzando l’attività economica della città, lesionando parecchi edifici e spopolando interi quar­tieri. Ma visto che Ancona, oggi come oggi, dovrebbe essersi ri­presa dallo choc, forse ci sarebbe un modo migliore per aiutarla. Quarant’anni non bastano. Certi drammi si scolpiscono nel­la memoria e nel portafoglio dello Stato. È il caso del­le alluvioni del 1972-73 che colpiro­n­o la Sicilia e la Cala­bria a causa di vio­lentissime mareg­giate. Immediato il decreto legge che sta­biliva aiuti, sussidi e provvidenze un po’ per tutti i settori produttivi. Dopo tanti an­ni ci sono 285mila euro di contri­buti delle Infrastrutture. A futura memoria. Non stupisce nemmeno che ci sia una previsione di 6.948 per il terremoto del Friuli del 1976. I furlans hanno ricostruito tutto in poco tempo e sono un modello per gli altri italiani. Ma evidente­mente qualcuno sentiva il biso­gno di stanziare un obolo per po­ter sostenere che tutti, ma pro­prio tutti, ricevono almeno un «aiutino».