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 2011  luglio 04 Lunedì calendario

Visita turistica alla Biennale tra noia, sudore e «nonsense» - Sono uno stereotipo. Un pastore sardo, un bracciante calabrese, un cafone pugliese, un camallo ligure, un mili­tante padano, un pa­droncino del Nord-Est, un neo laureato da laurea breve, un pre­cario da call center, un casalingo di Voghera

Visita turistica alla Biennale tra noia, sudore e «nonsense» - Sono uno stereotipo. Un pastore sardo, un bracciante calabrese, un cafone pugliese, un camallo ligure, un mili­tante padano, un pa­droncino del Nord-Est, un neo laureato da laurea breve, un pre­cario da call center, un casalingo di Voghera... Mi è stato detto che per essere a passo con i tempi e farmi una cultura devo andare a vedere la Biennale dell’Arte e così eccomi qua, fra l’Arsenale e i Giar­dini: mi hanno dato un catalogo che pesa mezzo chilo e a ogni tap­pa mi riempiono di carta. Non sapendo cosa scegliere, mi muovo nella logica del più for­te e comincio dagli Stati Uniti. Mi innamoro subito del carro arma­to con i cingoli al­l’insù che campeg­gia all’ingresso del suo padiglione, e ancor di più della cavallona bionda made in Usa che in magliette e calzon­cini ci corre sopra su un tapis roulant e così lo mette in moto. Lei suda e io penso che l’arte è fa­tica... Nello stand c’è una sorta di sta­tua della Libertà chiusa in un lettino abbronzante e un bancomat dentro un gigantesco organo: se fai un prelievo si mette a suonare da spaccare i timpani. Io sono uno stereotipo, un pasto­re sardo eccetera, ma non sono scemo e non tiro fuori la mia carta di credito per dare vita all’opera d’arte: se l’organo-banca-banco­mat se la mangia, chi mi rifonde? Obama? Al confronto degli Stati Uniti, Francia e Inghilterra mi deludo­no. La prima ha messo su una spe­cie di rotativa dove scorrono non le pagine di un giornale, ma inces­santemente il volto di un neona­to. Su uno schermo, ci sono tanti frammenti di immagini di giova­ni e di vecchi: se premi un pulsan­te e si compongono a formare un volto, ti porti a casa l’opera, mi vie­ne detto, vale a dire la faccia, per­ché altrimenti ti ci vorrebbe un hangar per contenere la rotativa. Il titolo di tutto è Chance , fortuna. «È un interrogativo sull’universa­le e sull’unico» mi spiegano. Non capisco, ma annuisco, sono uno stereotipo, un pastore sardo ecce­tera, ma sono educato. Gli inglesi invece hanno allesti­to una prigione, o almeno così mi sembra di capire: un labirinto di celle, spazi diroccati, corridoi, sof­fitti bassi, arnesi... Ci si entra in un numero limitato e bisogna stare attenti a non prendere una crania­ta o una storta. L’arte è pericolo, mi ripeto come un mantra. La ga­lera britannica in realtà è «un’in­stallazione parassitaria che si è stabilita in un edificio seicente­sco », «un collegamento sull’asse est-ovest/ovest-est» leggo sul ca­talogo una volta tornato all’aper­to. Capisco che c’è sempre un sot­to- testo, (o un meta-testo? bah) che mi sfugge e mi riprometto più attenzione. Così, di fronte alla Russia giun­go preparato. Empty Zones si chia­ma l’allestimento, spazi vuoti in­somma, e infatti non c’è niente se non delle foto di luoghi deserti e di gruppi di persone, dei taccuini scritti in russo, delle panche. Sarà la memoria dei gulag azzardo fra me, e invece è la memoria di una performance.Funziona così:l’ar­tista porta il suo pubblico fuori Mosca, lì fa una performance (non chiedetemi quale, non si sa) e poi sta al pubblico stesso ricor­darla, scrivendoci sopra. Il risulta­to è l’opera. L’arte è collettiva, mi dico, ma comincio anche a capi­re il mezzo chilo del catalogo: ser­ve a spiegare quello che ti sfugge, nonché le intenzioni dell’artista e insomma la carta non è mai abba­stanza. Prendiamo la svedese Klare Li­den. Espone dei bidoni di immon­dizia, neri, arancioni, francesi, spagnoli... Tu pensi che siano pu­ri e semplici bidoni, ma invece stanno a significare «la nascosta aggressione e la ribellione poten­ziale sotto la superficie degli am­bienti urbani e dei loro abitanti». E i Cristalli di resistenza dello sviz­zero Thomas Hirschhorn? Lì do­ve vedo uno sterminato numero di oggetti incellofanati, telefoni­ni, televisori, sedie eccetera, c’è addirittura «la quadripartizione del campo di forme e di forze: amore, filosofia, politica, esteti­ca ». Per ora non chiedetemi di più, sono pur sempre uno stereo­tipo, un pastore sardo eccetera... E la ungherese Hajnal Ne­meth? C’è una macchina rotta­mata, un filmato su una fabbrica di automobili, un altro con due che cantano un’opera lirica. E in ungherese e io che sono uno ste­reotipo, un pastore sardo eccete­ra, già ho problemi con l’italia­no... Il catalogo mi informa che cantano su un libretto basato sul­le interviste ai sopr­avvissuti a inci­denti stradali e il tutto sta a indica­re come «la tempistica traumati­ca e puntuale di un incidente si di­spieghi linearmente e ciclica­mente, lasciando che l’atto della percezione e dell’esplorazione avvenga al ritmo dello spettato­re ». Capisco, insomma, che io spet­tatore devo faticare per farmi una cultura, darmi da fare, avere un mio ritmo. Al padiglione di Israe­le ci sono delle pompe e delle tur­bine, un paio di scarpe ricoperte di sale, un video su Danzica, delle riprese di gente che traccia segni sulla sabbia... Dandomi un ritmo dovrei capire l’allegoria del tutto, «la critica al nazionalismo che in­debolisce e minaccia il razionali­smo e il potenziale positivo che è contenuto nella cooperazione e nell’equa distribuzione di risorse e ricchezze». Mi dondolo, mi di­meno, ma sempre pompe, scar­pe e turbine vedo. Per schiarirmi le idee vado al Pa­villon for Revo­lutionary Free Spe­ech del danese Thomas Kilperr. È una specie di Hyde Park Corner in legno, con tanto di megafono e un pavimento fatto con le facce di chi attenta alla libertà di stampa e di parola...Infatti c’è Feltri,Andre­otti, la Santanchè, la Mussolini, la Fallaci, il Papa, Berlusconi... C’è anche Raffaele Speranzon, il le­ghista, spiegano Kilperr e il suo te­am, che fece una campagna per boicottare dalle librerie del Vene­to i libri di quegli s­crittori che ave­vano firmato una petizione a favo­re di Cesare Battisti... Per Kilperr e il suo trust di cervelli, Battisti è «un ex attivista di sinistra»... È la completezza dell’informazione. Il bello della Biennale è che è sparsa per tutta Venezia, non se ne sta solo all’Arsenale e ai Giardi­ni. Così, con l’alibi dell’arte ti puoi vedere la città, compresi quegli spazi pubblici e privati al­trimenti chiusi... E poi c’è sempre un happening , con tanto di finger food , e io che sono uno stereoti­po, un pastore sardo eccetera, se mi inviti a mangiare con le mani mi fai solo un piacere. A San Vio c’è un palco che fa musica vinta­ge anni ’70 e ’80, ma mi spiegano che non è un’installazione della Biennale, bensì una festa di quar­tiere. Comunque, rimedio gratis del cocomero.All’Abbazia di San Gregorio, di fronte alla Chiesa del­la Salute, c’è Futur Pass... From Asia to te World , cento artisti che raccontano la cultura digitale del XXI secolo. L’opera più convin­cente mi sembra un Michey Mou­se di plastica rosso, con un mem­b­ro gigantesco, credo opera di un cinese di Taiwan, ma devo inda­gare meglio sul sotto- testo (o me­ta- testo? Bah). Sono uno stereoti­po, un pastore sardo eccetera, mi­ca un critico.