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 2011  luglio 05 Martedì calendario

Eternit, il pm chiede 20 anni di carcere - Tremila vittime dell’amianto, fra lavoratori e residenti dei quattro centri - Casale Monferrato, Bagnoli, Rubiera (Reggio Emilia) e Cavagnolo (Torino) dove si trovavano gli stabilimenti italiani dell’Eternit per cui si è fatto il processo

Eternit, il pm chiede 20 anni di carcere - Tremila vittime dell’amianto, fra lavoratori e residenti dei quattro centri - Casale Monferrato, Bagnoli, Rubiera (Reggio Emilia) e Cavagnolo (Torino) dove si trovavano gli stabilimenti italiani dell’Eternit per cui si è fatto il processo. «Un disastro ambientale» che fa dire a Raffaele Guariniello, al termine della requisitoria durata 5 udienze: «Mai avevo visto una tragedia così immane e sconvolgente». Elenca le precedenti: «I 27 bambini di San Giuliano...». Conclude che entrambi gli imputati «meritano 20 anni di carcere ciascuno». Una pena praticamente simbolica per il barone belga Louis de Cartier prossimo ai novant’anni di età. Non altrettanto per Stephan Schmidheiny, erede della dinastia svizzera dell’amianto. Da prima ancora che Guariniello mettesse mano alla mega-inchiesta ne temeva il sorgere e l’epilogo. Un avvocato italiano gli scriveva nel 2002: «Il massimo della pena da attendersi è di 5 anni, ma è immaginabile che non superi i 6 mesi». Un altro consulente milanese: «Possiamo confidare nella lentezza dei processi italiani». E invece, in 50 udienze, si è arrivati alla richiesta di pena per «i vertici effettivi» della multinazionale. Entro l’anno, sentiti in maniera contingentata (10 minuti ciascuno) i 120 legali di parte civile e con ben altro spazio a disposizione i difensori degli imputati («Le richieste del pm sono infondate», hanno anticipato ieri), si giungerà alla sentenza di primo grado del «processo impossibile». Un impegno, sinora rispettato, dal presidente Giuseppe Casalbore. Dal 1984, appena dopo aver deciso di far fallire l’Eternit Italia, Schmidheiny incarica un professionista della comunicazione, Guido Bellodi, di «monitorare costantemente la situazione italiana e i documenti di quest’ultimo da noi sequestrati nel suo studio milanese a dicembre 2005 - è l’affondo finale del pm Sara Panelli - rappresentano la prova del nove nei confronti dell’imputato». Per il magistrato, che ha condiviso con Guariniello e il collega Gianfranco Colace il peso dell’inchiesta, «si deve ricordare che Schmidheiny si preoccupò di concludere nel 1986 una transazione di 9,5 miliardi di lire con i curatori fallimentari delle sue aziende italiane che avesse effetti tombali sui danni alla salute dei dipendenti. Per evitare in seguito “risarcimenti stellari”». Guariniello: «Gli imputati sono responsabili di dolo diretto nell’aver provocato un disastro ambientale. Sapevano della cancerogenicità dell’amianto e l’hanno negata prodigandosi perché le informazioni scientifiche venissero contraddette da specialisti al proprio servizio. In particolare, ciò vale per Schmidheiny: si è costruito fama di filantropo ma ha continuato a farsi relazionare sulla strage silenziosa degli ex dipendenti senza mai intervenire per mettere a disposizione fondi per l’assistenza e la ricerca. Il suo problema era recidere i legami con l’Italia». «Ce lo dicono i rapporti dell’Osservatorio Bellodi in attività sino al 2005 - conclude Panelli - che documentano l’assillo di Schmidheiny di “mantenere il caso a livello locale”, influenzando la stampa. La madre delle sue strategie è sempre stato il controllo dell’informazione. E Bellodi, dopo 16 anni di accurato lavoro di gruppo, scrive soddisfatto in una relazione: “L’attenzione della stampa italiana è stata minima rispetto all’effettiva importanza del problema”».