Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 03 Domenica calendario

INSEGUO LE TENDENZE DI UNA CASA NO LOGO

Via Savona: what else? In fondo per chi a Milano si occupa di design e dintorni, nessun luogo, nessuna strada può essere più adatta di via Savona, alle spalle della vecchia stazione di Porta Genova. Dove ancora si incrociano i destini degli squatter della Bottigliera Okkupata, dei ristoranti-taverna e dei fashion café buoni per il rito (ormai abusato) dell’happy hour e degli architetti più à la page (o presunti tali). Difficile dunque immaginare Joseph Grima, neodirettore di una rivista storica come «Domus» , in un altro posto, in un’altra via che non fosse questa. Eppure in questa palazzina di tre piani, più «piccola» che «medio-borghese» , prende forma l’altra faccia del design: quella sempre meno glamour e sempre più in versione smartphone, Twitter, iPad, web tv, apps; quella sempre meno griffata e sempre più «no-logo» . Benvenuti, insomma, nell’universo domestico dei nativi digitali. Quattro stanze, con bagno e cucina. E un panorama domestico dall’aria molto provvisoria. Certo assai lontana dall’istituzionalità di quella poltrona di direttore su cui prima di Joseph (arrivato appena lo scorso aprile in occasione del Salone del Mobile) si sono già seduti Gio Ponti (il fondatore) e Ernesto Nathan Rogers, Mario Bellini e François Burkhardt, Stefano Boeri e Deyan Sudjic. Eppure Grima sembra essere riuscito a trasportare qui, sopra questi pavimenti di graniglia rossa e marrone, tra questi mobili di cucina scuri e pesanti (né antichi né preziosi) tutta la sua storia. Quella di direttore della Storefront for Art and Architecture (galleria all’avanguardia «che incentiva la promozione di posizioni innovative in architettura, arte, design e pratiche territoriali» naturalmente a New York). Quella di autore di Instant Asia (Skira, 2007), quella di inviato speciale, oltre che di «Domus» (51mila copie vendute per 88 Paesi), anche della concorrente «Abitare» e di altri fogli più o meno conosciuti come «AD» , «Tank» , «Volume» , «Urban China» . Quella, infine, del sostituto di un maestro come Alessandro Mendini (per ben due volte alla guida di «Domus» ): «Abbiamo un grandissimo privilegio storico — ha detto alla presentazione del primo numero—. Abbiamo deciso di metterlo in dubbio e di chiederci cosa voglia davvero dire fare oggi una rivista di architettura» . Secondo piano, dice gentilmente il portiere. Pochi scalini e Grima compare. Anche stavolta è difficile non immaginarlo così: vestito di nero, camicia slim fit, pantaloni jeans (ma non griffati), scarpe simil sneaker (ma senza tanti lussi). A colpire è soprattutto lo sguardo da ragazzo, l’aria furbetta ma non troppo: «Sono arrivato in questa casa quasi per caso, dovevo per forza trovarmi quattro mura e non avevo troppo tempo a disposizione. Qualcuno mi ha detto che c’era questo appartamento libero... Per me, per mia moglie e per Zoe, la figlia, andava bene» . Un bel colpo, essendo palese la scarsa attitudine al pratico di Grima (a cominciare dalla preparazione del caffè), è stato poi anche quello di poter utilizzare la cucina del precedente inquilino: «L’aveva appena rifatta. Per noi tre andava benissimo» . Lo spazio, certo, non appare all’altezza di un guru del design: con quei mobili componibili modello grande magazzino e con tutta quella confusione di mestoli, pentole, caraffe d’acqua, caffettiere e zuccheriere in peltro normalissime, biscotti Plasmon, bustine di magnesio. E nemmeno la vista sul cortile interno risolleva il livello estetico, ma a Grima sembra non interessare più di tanto. Anche se ammette: «Certo sarebbe più bella se avessimo un terrazzo come quello del primo piano» . A lui, in fondo, quegli edifici anonimi (con contorno di gru) che si intravedono dalla finestra vanno bene così. Al tempo (almeno in architettura) dell’artificioso a tutti i costi, la casa di Grima colpisce per la naturalezza e la semplicità, una naturalezza e una semplicità che sembrano in qualche modo anticipare il design che sarà, senza tanti orpelli e senza tante star. Ma certo nemmeno tanto normale (né banale). D’altra parte la stessa storia di Joseph (nato nel 1977) è anomala: «Le mie radici sono maltesi, mio nonno vendeva ricami alle ricche borghesi» , ma in quelle stesse radici trova posto anche un grande nome dell’aristocrazia, quello della nonna materna Leopoldina Farnese, ultima appunto dei Farnese di Roma. Il frullatore esistenziale di Grima è cominciato da subito: i genitori si trasferiscono a Londra «senza tanti mezzi» , lui nasce in Francia e dalla Francia passa poi ad Assisi, dove vive (e dove qualche volta torna ancora per un piccolo momento di vacanza, magari in compagnia dei due fratelli): «Ho cambiato casa quattordici volte, Svezia compresa» . La sua vita non è mai stata uguale a quella degli altri: «Non sono andato a scuola fino a dodici anni, mia madre mi ha fatto da insegnante, certo poi non è stato facilissimo creare legami con i miei coetanei» (la sosta ad Assisi si è rivelata relativamente più lunga del solito). Dopo ci sono stati Firenze e la scuola di architettura di Oxford. A guardare bene quella di Grima è in fondo solo la casa di una giovane coppia con una figlia piccola. Dove suonano strane le considerazioni di Joseph sul futuro del design: «Nell’ultimo decennio una serie di trasformazioni epocali hanno radicalmente ridisegnato il modo in cui si concepisce e si discute la progettualità. Dall’iPhone al trolley. E così il design è diventato la massima espressione culturale di oggi» . Tra un finto caminetto oppresso dai ninnoli e dalle borse della spesa, si raccontano invece piccoli aneddoti privati: «Il divano? L’ho comprato in liquidazione in un negozio di arredamento qui sotto» . Ancora una volta, così grigio, così fin troppo comune, non fa molto design: «Ho dovuto comprarlo per forza. Mia moglie mi ha detto di trovarne uno o se ne andava di casa. A guardarlo bene non è nemmeno così male» . Più volte (magari mentre parla di New York, «dove è difficile vivere, dove c’è il meglio e il peggio di tutto» ) torna quella che, forse, è la parola chiave per capire l’intero universo Grima: serendipity ovvero (in linea di massima) quella «felice casualità» che permette «di affrontare la vita con leggerezza, senza tanti drammi» . Con leggerezza, appunto, Grima racconta dei suoi viaggi continui, incessanti: «Non posso sapere dove sarò domani» . E della nuova Domus: «Tutti sanno che cos’è, è una rivista che ha fatto storia, in qualche modo è un’istituzione. Io sto cercando di rinnovarla, di farla più giovane, voglio farle perdere ogni possibile fascino di antico. In questo devo molto alla mia casa editrice e alle eredi del fondatore Gianni Mazzocchi, alla loro curiosità di cambiare, alla loro voglia di cercare la contemporaneità» . Una contemporaneità che si traduce in tanti piccoli frammenti domestici: il computer di Grima, ad esempio, è rigorosamente portatile perché ormai gli altri sono antichi. Una contemporaneità che si ritrova in quella intera parete di plastica (in perfetto stile Ikea) dove Joseph tiene tutti i device, tutte le prese, tutte le spine, tutti i cavi per collegarsi via computer con ogni parte del mondo. «Non è proprio un’idea originale, l’ho ripresa da Armin Linke, che però ne ha una grande il doppio di questa» . Nelle poche immagini sperdute sui vecchi tavoli e sugli scaffali il giovane Grima (Il suo impegno? «Creare una nuova generazione che possa sostituire i grandi maestri oramai al tramonto» ) sorride sempre: in braccio alla nonna; da solo davanti ad un grande albero verde; assieme ai due fratelli. In fondo, anche da piccolo, non sembra nemmeno tanto diverso da oggi. Ennesimi tasselli di una vita che, sia pure al di fuori normale, vuole rimanere comunque normalissima, nel segno della serendipity, appunto. Ma in cui il contemporaneo è sempre dietro l’angolo. E così davanti ai giochi di Zoe (tra le poche certezze insieme alle spine del computer), attaccato alla parete compare un grande tadzebao rubato direttamente dalle strade della Grande Mela: «È un mio progetto per il NewMuseum di New York, con i miei collaboratori di allora ci abbiamo lavorato a lungo» . Un giornale che gli stessi lettori avrebbero dovuto aggiornare continuamente «in diretta» . Come a dire che il futuro è cominciato.