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 2011  luglio 03 Domenica calendario

LA MORTE DEL MILITARE E «LA NECESSITÀ DI RESTARE

Il contingente italiano viene colpito da un nuo vo lutto mentre nella guerra afghana è giunto il tempo delle scelte risolutive. La più importante dieci giorni fa di Obama, che piegando il braccio ai suoi militari e affermando il primato delle difficoltà economiche inter ne ha annunciato il ritiro di 33.000 soldati Usa entro il settembre del 2012. L’indi cazione strategica dell’Ame rica, come era inevitabile che accadesse, ha subito trovato corrispondenza da questa parte dell’Atlantico.
Sarkozy è stato il più lesto nello stabilire che le truppe francesi saranno ridotte nella stessa proporzione dei tagli statunitensi, e intenzioni non molto diverse — seppure con maggiore elasticità e in stretta consultazione con Washington — prevalgono a Londra, a Berlino e a Roma. Si è così delineata, nei fatti, una accelerazione di quel «piano di Lisbona» che prevede il trasferimento alle forze afghane di tutte le attività di sicurezza entro la fine del 2014. Dopotutto, se un Obama che pensa alla rielezione può cantare vittoria dopo essersi sbarazzato di Osama Bin Laden e dichiarare ormai insostenibili i dieci miliardi di dollari che ogni mese vengono gettati nel pozzo senza fondo di Kabul, l’Afghanistan costa troppo anche agli alleati europei malati di Grecia e dissanguati dalla Libia. Senza contare che sull’Alleanza, sull’intera Alleanza, pesa ogni giorno di più la consapevolezza che gli obbiettivi iniziali dell’impresa non potranno essere raggiunti, che i talebani non saranno annientati militarmente, che l’Afghanistan non diventerà una vera democrazia, che la minaccia terroristica sarà certo contenuta ma non scomparirà. Si spiega così, con questo desiderio di disimpegno ormai salito alla ribalta, la formalizzazione della disponibilità americana a «parlare con il nemico» , nella speranza che premi sostanziosi inducano un numero sufficiente di talebani a deporre le armi e a schierarsi con il presidente Hamid Karzai. E si spiega così anche che i talebani più intransigenti da questo orecchio non ci sentano, e pregustando il successo ormai vicino abbiano voluto dimostrare la loro forza attaccando il simbolico fortino dell’Intercontinental di Kabul. Siamo dunque al «tutti a casa» , è la tromba della ritirata generale quella che si ode in sottofondo? La risposta è no, e le immancabili polemiche tra le nostre forze politiche dovrebbero ricordare che, in Afghanistan come altrove, non è venuto meno il primario interesse nazionale italiano a non prendere iniziative di ritiro unilaterali. Del resto non ve ne sarà bisogno: le nostre truppe combattenti lasceranno gradualmente il posto agli istruttori per preparare le forze afghane al 2014, e anche noi, come gli altri, opereremo le nostre riduzioni concordate con gli alleati. Ma vanno respinte, perché sbagliate, suggestioni intempestive. In Afghanistan la Nato conserva e conserverà forze sufficienti per attuare lo schema di Lisbona. Quel che cambierà sarà piuttosto il modo di attuarlo. Con una presenza militare diretta progressivamente minore. Parlando in contemporanea con i talebani «buoni» . Moltiplicando gli aiuti civili. Lasciando che Karzai polemizzi a piacimento con la Nato e tenti così di rilegittimarsi. E tenendo sempre ben presente il doppio obbiettivo di allontanare lo spettro della sindrome vietnamita e di creare un sistema di sicurezza regionale cui alcune basi americane dovrebbero, anche dopo il 2014, coprire le spalle. Può riuscire, questa strategia? Le perplessità, inutile nasconderlo, prevalgono di molto sugli ottimismi. I talebani che hanno accettato di dialogare sono pochi e poco significativi. Le forze militari afghane sono in via di miglioramento, ma non offrono garanzie sufficienti e restano esposte, già prima del 2014, alle divisioni intestine tra clan, tribù, etnie e fedeltà ai signori della guerra regionali. Il narcotraffico è diminuito, ma non è stato estirpato e favorisce destabilizzanti alleanze di interessi. La credibilità del presidente Karzai pare definitivamente compromessa. Il messaggio portato dagli aiuti civili viene spazzato via con gli interessi quando innocenti civili vengono uccisi nelle operazioni militari. E soprattutto l’eliminazione di Osama Bin Laden, se da un lato ha approfondito le difficoltà di Al Qaeda e ha dato una mano alla popolarità di Obama, dall’altro ha rafforzato tra America e Pakistan una crisi di sfiducia che potrebbe rivelarsi, per la stabilità regionale, più grave delle residue capacità del terrorista ucciso. Senza il Pakistan e senza la collaborazione dei suoi ambigui servizi segreti il piano Nato non riuscirà. Ma il Pakistan, intanto, si avvicina all’Iran e parla con la Cina.