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 2011  luglio 03 Domenica calendario

PATRIOTI?

Tra le figure evocate da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, spicca quella del soldato che aveva perduto una gamba nella campagna napoleonica di Russia: per tutto il resto della vita, aveva fatto risuonare le strade di Melfi con i colpi della sua protesi di legno. «La Storia – dice Levi – gli aveva preso una gamba, ed egli non sapeva neppure che cosa essa fosse».
È però azzardato pensate che i «senza potere» siano sempre stati collaboratori ignari dei drammi della Storia, quali sono le guerre. Più corretto, invece, cercare di capire l’animo di chi, costretto o volontario, in quei drammi è stato coinvolto.
Proviamo a farlo, anche se non tutte le domande troveranno risposta, consultando la documentazione che sull’epoca risorgimentale è stata raccolta nell’ambito di una piccola iniziativa ligure, il Museo Contadino di Càssego. Nel 1855 Cavour sostenne che il Regno di Sardegna aveva «un interesse diretto immediato alla libertà del commercio d’Oriente» e per questo si doveva mandare un corpo di spedizione in Crimea, nonostante la contrarietà di molti deputati. Dei quindicimila bersaglieri al comando di La Marmora, duemila non tornarono a casa. Le famiglie, in base a una legge del 1850, ebbero diritto a una pensione di guerra. E i reduci? La famiglia di un bersagliere di Crimea ha conservato quello che, nel confronto con le stampe più antiche, sembra essere lo spadino d’ordinanza, ridottosi col tempo alla sola lama. Era orgoglio di possedere un cimelio raro? È più probabile che costituisse una prova del diritto alla riconoscenza pubblica. Certamente l’orgoglio ha perpetuato il soprannome pubblico «Savàn», dato dai soldati francesi ( savant in originale) a un caporale di Varese Ligure inventore di alcune astuzie in combattimento; e la famiglia del caporale ha conservato a lungo le medaglie di Solferino e San Martino. Con l’impresa dei Mille, l’appoggio al processo unitario arriva all’entusiasmo. Lo dimostra la scritta che un borghigiano, sempre di Varese Ligure, ha scolpito sul portale in arenaria in casa sua: «Gaeta ha capitolato al 14 di febbraio 1861». Anche don Vincenzo Giannone, che dal 1854 al 1906 ha diffuso l’istruzione elementare sulla montagna ligure, dedica un poema, giuntoci incompleto, proprio a Garibaldi.
È un entusiasmo facile, per chi si esprime lontano dalle battaglie, ma se Denis Mack Smith dice il vero, «gli italiani del meridione venerarono il loro liberatore come un santo, e talvolta addirittura come un Dio, e in paesi lontani lavoratori che non avevano mai visto Garibaldi rinunciavano alla loro mezza giornata festiva per costruire armi per lui». E l’entusiasmo dura fino al 1866, quando molti giovani partono volontari con i «Cacciatori delle Alpi». Che cosa li motivava? Per un mio trisavolo, contadino senza terra e mezzadro, quella partenza volontaria è stata l’inizio dell’affrancamento. Non certo facile e immediato, perché al ritorno dalla guerra il garibaldino riesce a comprare – forse proprio con il denaro del «soldo», la paga dei soldati – un minuscolo vigneto, ma deve fare la potatura di notte, per non irritare il padrone delle terre tenute a mezzadria. La sepoltura con la camicia rossa, comune tra i garibaldini, era la rivendicazione di una libertà che il fascismo ormai consolidato – ma fortemente avversato dal mio trisavolo – stava cancellando. I libri di storia ci illustrano la cattiva politica del governo italiano che, svendendo le proprietà collettive assieme ai terreni gravati da uso civico (sia comunali che parrocchiali), ha infragilito un Sud già debole e ha inimicato allo Stato (con l’introduzione immediata della leva obbligatoria) almeno quattro regioni italiane. Che ha capito di tutto questo un protagonista della repressione contro il cosiddetto brigantaggio? Il soldato Giuseppe Lucchetti (Geppìn) fece 8 anni di servizio militare, 4 per sé e 4 per un fratello. Era stato arruolato nel reggimento 57, che assieme al 58 faceva parte della Brigata Abruzzi. Assieme ad altre quattro brigate (Alpi, Umbria, Marche, Calabria) era stata formata proprio per la campagna contro il brigantaggio. Geppìn ne aveva riportato una febbre malarica che giustificava la pensione di guerra, poi passata per reversibilità a una nipote. Geppìn ha visto fucilare «briganti travestiti da preti» (più probabilmente preti che avevano appoggiato la ribellione); ha pure rischiato la fucilazione con l’accusa di aver sparato senza ordini, mentre era il caldo a surriscaldare le armi e qualche colpo partiva da solo. Ma, oltre ad aver raccontato per tutta la vita le sue avventure di guerra, ha sempre conservato il suo kepì, la protezione della testa (feltro, cuoio e cerchi in ferro) usata in tutti gli eserciti del tempo. Non risulta che nei rapporti parlasse delle atrocità poi accertate dagli storici. La voglia di raccontare di Geppìn era malinteso vanto patriottico o condanna di una impresa infelice? Non lo sappiamo. Si manifestava in lui, probabilmente, quella ambivalenza che si ritroverà nei reduci della prima guerra mondiale. Se i numeri dicono qualcosa, seicentomila renitenti e disertori (tanti quanto i morti) dimostrano che il popolo ha sordamente rifiutato quella guerra. Anche il reduce Bartolomeo Bottini (classe ’95), ascoltando alla radio gli studenti fascisti che ai primi di giugno 1940 invocavano l’entrata in guerra dell’Italia, diceva scrollando la testa: «Non sanno cos’è la guerra!». Da vecchio, mentre veniva intervistato sull’esperienza del fronte, concludeva: «Mi hanno rubato la gioventù: ho riportato a casa la testa rotta e le gambe bucate!». Ma ad ogni 4 novembre chiedeva di essere fotografato con le sue medaglie. Ho assistito da ragazzo, dopo il 1945, a varie commemorazione della «Vittoria» fatte ad Ameglia (La Spezia). L’appello (l’elenco dei caduti con il grido «Presente!» ad ogni nome) non era più gestito dai personaggi del caduto regime, bensì da vecchi «mazziniani» ma la commozione e l’orgoglio erano ben visibili. Difficile dunque liberarsi di una lunga pedagogia della violenza, qual è la guerra, specialmente se ha segnato fortemente l’età giovanile. Ma forse proprio dal mondo contadino, che ha custodito la memoria bruciante delle guerre, vengono indicazioni disintossicanti. La lama di Crimea, da quando è stata introdotta la stufa di ghisa, è servita per pulire le canne fumarie; il kepì militare è stato usato dal proprietario come porta-chiodi. E gli elementi tedeschi abbandonati nell’aprile del 1945 sono diventati, dappertutto, abbeveratoi per i polli. Il nuovo uso cambia il significato degli oggetti e in qualche modo li esorcizza: l’oggetto conserva il suo valore di monito, ma viene riportato a funzioni di pace. Nel piccolo villaggio di Càssego i reduci della prima guerra mondiale, animati dal parroco che era stato infermiere sul Carso, costruirono dal 1920 al 1933 – con lavoro volontario – 8 chilometri di un’importante strada di montagna. Ho sempre pensato che i reduci volessero anche, con questa loro impresa, «ripudiare la guerra», mostrando quello che si può fare mettendosi insieme per costruire e non per distruggere.