SIMONETTA FIORI , la Repubblica 4/7/2011, 4 luglio 2011
GOFFREDO FOFI - "DA DANILO DOLCI ALLE MENSE PER BAMBINI L´ARTE DI COSTRUIRE PICCOLE COMUNITÀ"
«Il Sud è stato il mio primo amore», dice Goffredo Fofi seduto nella piccola redazione dello Straniero dietro piazza del Popolo. «Ogni tanto mi prudono le piante dei piedi, vuol dire che devo scendere a Palermo». Più che un intellettuale («detesto quella parola»), una "redazione" in vagone letto, irrequieto e fremente, ieri a Trieste oggi a Roma domani a Matera, «perché io so lavorare solo così», senza fissa dimora, bastone e zaino in spalla, maestro di tanti, testimone di nozze di quasi altrettanti, inarrestabile inventore di riviste.
Fofi, come ha scoperto il Sud?
«Come molti della mia generazione. A 14 anni lessi Cristo s´è fermato a Eboli, poi su Cinema Nuovo di Aristarco vidi un fotoservizio di Enzo Sellerio dedicato alla Sicilia di Dolci. Dopo il diploma di maestro, nel 1955, da Gubbio decisi di scendere da Danilo. All´appuntamento mi accompagnò mio padre, un contadino umbro con la terza elementare: essendo di fede socialista non batté ciglio e mi lasciò andare».
I disoccupati di Partinico e i bambini di Cortile Cascino, quasi Terzo Mondo.
«Per me la scoperta di un mondo tragico, il Sud raccontato da Levi ma anche dal neorealismo di Germi. Partecipai allo "sciopero alla rovescia" dei disoccupati: erano in gran parte poveri cristi della Banda Giuliano che uscivano dal carcere. Vidi bambini che languivano nella misera. Una notte mi chiamarono nella baracca d´una ragazzina uccisa dalla fame. Partecipai alla veglia funebre, quando all´improvviso ne sentimmo esplodere la pancia rigonfia. Avevo 19 anni».
Un´Italia contadina molto diversa da quella in cui era nato.
«La mezzadria umbra era un sistema ancora medievale, però di fame non si moriva. Molti anni più tardi, parlando con Buñuel, gli dissi che quel che avevo visto nel Sud d´Italia era perfino peggio rispetto a Los Olvivados, girato in Messico. Lui non ci voleva credere».
Lei è molto critico con Pasolini, accusato di idealizzare la povertà.
«Pasolini enfatizzava l´Italia arcaica, ma sbagliava. Anni fa portai a Gubbio una coppia di intellettuali milanesi. C´era ancora mia madre, appena tornata dalla Francia dove i miei genitori erano emigrati: lei faceva la stiratrice, mio padre il gruista. I giovani amici le chiedevano entusiasti di evocare un passato incontaminato, lei felice li assecondava, quando all´improvviso s´incupì: "Oh ragazzi, io dirò sempre una preghiera per quello che s´è inventato il cesso dentro casa"».
Da dove nasceva la sua vocazione missionaria?
«Eravamo in tanti, allora. All´inizio c´era forse un po´ di velleitarismo, poi venivi coinvolto in una rete sociale e intellettuale molto forte. Grazie a Danilo, ho avuto la possibilità di essere accolto dalle famiglie Calogero e Gobetti, di stringere la mano a Parri, di incontrare Salvemini, di diventare amico di Capitini, Bobbio e Venturi. È come essere trascinati nella storia. Tutte le volte che ho avuto la tentazione di tenermene fuori - penso alle successive offerte mirabolanti del mercato editoriale - interveniva questo super-io collettivo di personalità reali, insieme alle facce degli uomini e delle donne che aiutavo».
Salvemini cosa le disse?
«Lo andai a trovare a Capo di Sorrento. Lui era un monumento, io un ragazzino. Mi chiese di Dolci e della Sicilia, poi amabilmente mi liquidò. Era seduto in una grande terrazza, da un lato una pila di carte e dall´altra una bacinella d´acqua nella quale intingeva un fazzoletto per poi strizzarlo con cura e metterselo in testa. Uno ha l´occasione di conoscere Salvemini, poi ne ricorda queste cose stupide».
Un gesto semplice, come forse erano quei personaggi.
«Ha presente la teoria dei sei gradi di separazione? Le minoranze di cui ho fatto parte erano molto privilegiate. Attraverso Lanza De Vasto, un aristocratico fiorentino che aveva lavorato in India, ero a un solo grado di separazione da Gandhi. E con il tramite di Nicola Chiaromonte ero collegato ad Hannah Arendt e Camus. Se penso all´attuale mondo politico e intellettuale italiano, rimango sbalordito: ai ragazzi manca questo rapporto con la storia».
Perché con Dolci non funzionò?
«Danilo era eccezionale, ma come tanti altri fu travolto dal miracolo economico. Reggere rispetto ai nuovi tempi era difficile. Nel dopoguerra era forte l´idea di costruire una comunità nazionale: con il boom l´accento passò sulla parola sviluppo».
Però nel 1960 lei ci riprovò in Calabria, insieme alla "strana gente" ritratta in suo diario di quegli anni.
«Lì però alle spalle avevamo Manlio Rossi Doria e Gilberto Marselli, grande sociologo agrario. Volevamo fare le stesse cose che aveva fatto Danilo, ma meglio, dunque con un progetto inserito nel mercato. Si trattava di aiutare una comunità a crescere e cambiare».
Una goccia d´acqua in un oceano. Ernesto Rossi non vi risparmiò scetticismo.
«Aveva ragione lui. In realtà anche noi non riuscivamo a stare dentro la mutazione. Su suggerimento di Renato Panzieri, mi trasferii a Torino: i contadini meridionali li osservavo all´interno delle fabbriche del Nord».
Da quel diario affiora un singolare rapporto con le donne: molto ammirate e molto temute.
«Me lo fece notare Adriano Sofri. Io credo di avere imparato enormemente dalle donne - tutte figure straordinarie, da Ada Gobetti ad Angela Zucconi, da Gisella de Juvalta a Gigliola Venturi. Ma nel rapporto con loro ero condizionato da una cultura profondamente maschilista. Distinguevo tra le mamme o le maestre o le leader e le donne sessualmente impegnative: delle prime non avevo paura, delle altre sì».
Scriveva allora nel diario: «Dovrei essere più umile, cortese con tutti, non ironico e sprezzante». Quanto ancora si riconosce in quel ritratto?
«Mah, negli anni intorno al Sessantotto diventai spietato e ringhioso, rinnegando anche l´ispirazione non violenta del mio maestro Capitini. Oggi mi pento abbastanza, ma non dei giudizi di fondo - se vado a rileggermi le stroncature dei film italiani credo che avessi ragione - ma della mia aggressività: ci mettevo qualcosa di sporco, di cui un po´ mi vergogno».
Nel 1972 tornò a Napoli.
«A Milano il clima era pessimo, io stavo male per le tensioni interne al movimento, e per le tensioni con la polizia. Lotta Continua era il meno peggio, ma anche loro non scherzavano. C´era di tutto, anche la feccia. Poi non sopportavo la veste pubblica che mi avevano cucito addosso, il feroce critico dei Quaderni Piacentini. Decisi di ricominciare da Napoli. Se fossi un dittatore illuminato, imporrei a tutti una sola cosa: ogni 25 anni cambiare identità, nome e cognome».
A Montesanto fondaste la mensa proletaria per i bambini.
«Sì, ti prendevano in giro perché andavi a pulire il sedere ai bambini anziché sparare contro la polizia. Per me fu un´esperienza bellissima. Vincemmo un processo contro Valentino, che faceva lavorare le ragazzine di Portici: la colla era micidiale e rimanevano paralizzate per mesi».
Ai margini della mensa ha visto nascere i Nap.
«Sì, percepivo qualcosa, ma ero in una condizione di impotenza ipernevrotizzante. Interruppi la corrispondenza con i carcerati del Malaspina quando mi accorsi che erano stati circuiti da giri che non mi piacevano. Uno dei nostri ragazzi, Sergio Romeo, è morto mentre svaligiava una banca».
Nel 1977 finì quell´esperienza e lei tornò al Nord. Ma cosa c´è dietro questa sua irrequietezza?
«Potrei rispondere con Petrolini: "a me, m´ha rovinato la guerra…". A Gubbio i tedeschi ammazzarono per rappresaglia 40 persone, tra le quali vidi morire il genitore d´un mio compagno. Poco dopo mio padre mi condusse a Roma, alle Fosse Ardeatine: le file di bare allo scoperto, il pianto dei famigliari. Quelle visioni hanno lasciato un segno. Domande, paure, anche angosce. Le mie nevrosi sono nate allora, insieme al bisogno di stare con le persone, concretamente».
Gottifredi di Populonia, la chiamava Cases.
«Ah, vabbé».
Lei s´è donato a una comunità, ma non a una persona. Ha fatto da testimone di nozze a moltissimi, ma non ha voluto un legame stabile.
«Mah, mi circonda questa fama paternalistica che un po´ mi rompe. Quanto a me, ho sempre evitato storie sentimentali che potessero isolarmi. Ma oggi questi discorsi non contano più, la pace dei sensi è una gran bella cosa».
Se domani mattina potesse fare una telefonata a un amico che non c´è più?
«Mario Monicelli. Dopo le elezioni ne ho scorto una foto su un libro e mi è venuto quasi da piangere. Negli ultimi tempi era disperato: gli italiani sono diventati un popolo di rincoglioniti - diceva - di anestetizzati, com´è possibile? Doveva aspettare qualche mese di più».