Giorgio Armani, Corriere della Sera 2/7/2011, 2 luglio 2011
IO E IL SISTEMA. NON VOGLIO ALLEANZE MA UNA MODA LIBERA
Caro Direttore,
ancora stupito di quante parole siano state scritte su di me in questi giorni, non per parlare del mio lavoro, ma per attribuirmi una volontà di polemica che non mi appartiene — e che forse una serie di dinamiche mediatiche sfuggite al controllo sta alimentando inutilmente—, la ringrazio dello spazio che vorrà riservarmi.
Vorrei chiarire, una volta per tutte, quale sia la mia visione imprenditoriale e come in tutti questi anni ho inteso occupare il mio spazio nel mondo. Naturalmente ciò non può prescindere dal mio atteggiamento esistenziale, che poi immancabilmente si riflette nella mia moda e in ogni aspetto del mio lavoro che comprende le relazioni con il mercato, i media e le istituzioni. Se parliamo di moda, ci riferiamo a qualcosa che deve essere desiderabile, portabile e che risponda alle esigenze del tempo in cui viviamo. La moda deve rapportarsi costantemente alla realtà pur mantenendo una dimensione di fantasia e creatività nel modo in cui viene presentata e comunicata. E il riscontro finale è dato da chi ti sceglie, che sa distinguere ciò che è puro intrattenimento da ciò che è vero elemento del guardaroba, un abito, che lo aiuterà a sentirsi disinvolto e sicuro nell’affrontare la vita, nonostante l’influenza dei media.
La mia storia è abbastanza nota: con quel tocco di femminilizzazione dato al guardaroba maschile e quell’allure di autorevolezza conferita all’universo femminile, credo di aver indicato una via di stile che sin dall’inizio ha segnato la moda e le élites per poi essere seguita dal grande pubblico. Da lì in poi, stagione dopo stagione, con aggiustamenti continui, è stata tutta un’evoluzione, uno spostamento di segni e di significati, che però sono andati nella stessa direzione. Non è stato sempre facile, soprattutto nei confronti di una stampa che si lascia impressionare da una moda più estrosa, ma credo che aver proseguito nella stessa direzione mi ha dato ragione, allora come oggi. Se poi parliamo di modelli di crescita, come ho già affermato nel passato, io non ho bisogno di alleanze, né di complicità, né di frequentazioni mondane, né tantomeno di espedienti: né estetici né di visibilità. Ho troppo rispetto per me stesso, per il pubblico e per tutte le persone che lavorano con me e nel mio settore, per rinunciare a una sorta di onestà intellettuale che influenza e orienta la mia vita, anche a discapito di allettanti opportunità economiche. La mia formazione mi impone una certa serietà, da non confondere con la seriosità.
Sono stato definito rigoroso e intransigente, ma io aggiungerei appassionato. Molte volte si parla di stile, ignorandolo totalmente. Mi è sempre molto dispiaciuto vedere come la mancanza di logica abbia spesso prevalso sul buon senso, mi innervosisce scoprire che il linguaggio televisivo ha pervaso la scena e involgarito gli animi, oltre che molte vetrine delle nostre città. Non ho mai avuto bisogno di effetti funambolici per costruire la mia identità e difendo l’indipendenza della mia azienda perché ne deriva una maggior libertà sia sul piano creativo che decisionale e strategico. La mia è un’impresa costruita negli anni, senza rilevanti cedimenti né speculazioni estemporanee: credo nella quotidianità fatta di grande impegno, di rischio calcolato e di amore per quello che si fa, seguendo una precisa e coerente direzione verso il futuro. Pur nella diversificazione, sono molti i marchi che fanno capo al mio Gruppo, e sono felice di riconoscere in ogni segmento della mia vasta produzione la matrice etica che fa del mio nome, un nome credibile. Nome che oggi significa quel che significa, ma, vorrei sottolinearlo, prima del mio nome viene il mio prodotto con la sua identità di stile, che è stato sempre ciò su cui ho puntato. Non ho nulla, naturalmente, contro l’entrata in Borsa, ma sono convinto che la Borsa o le aggregazioni non siano le uniche soluzioni, come è stato impropriamente detto e scritto in questi giorni. Non esiste un modello unico di strategia. Dipende da molti fattori e c’è una differenza sostanziale tra imprenditore e finanziere: se quest’ultimo ha in mente il risultato immediato, l’imprenditore appassionato lavora per costruire nel tempo. Io sono un testimone di questo modo di interpretare l’imprenditoria: ne è prova la crescita costante della mia azienda, che continua a creare posti di lavoro incentivando l’artigianalità e alimentando un patrimonio di conoscenza che rischierebbe altrimenti di perdersi.
Le ragioni per le quali io non entro in Borsa sono chiare. Ho la liquidità necessaria allo sviluppo della mia azienda e voglio dedicare tutte le mie energie alla sua sana crescita, anziché rendere conto agli azionisti. È indubbio infatti che una scelta di questo tipo comporti un controllo e una tempistica diverse: le decisioni finiscono con l’avere un percorso più lungo perché sono molte le variabili e numerosi gli interlocutori con interessi differenti ai quali rendere conto. Inoltre il processo creativo non può, come dovrebbe, avere un andamento fisiologico, ma è condizionato inevitabilmente da altre esigenze, non sempre vicine alla sensibilità di chi crea. Ciò nonostante non escludo nulla e faccio i miei complimenti a chi ha recentemente compiuto operazioni brillanti che, semplicemente, sono distanti dalla mia visione attuale, dal mio mondo. Anzi il ricorso alla Borsa può essere assolutamente valido a seconda del modello e del contesto economico che un’azienda e il mercato vivono. Oggi io non ho bisogno dei soldi della Borsa, né per crescere, né per globalizzare, né per aggregare i miei marchi. Non faccio parte del Sistema, perché è complicatissimo e non sempre chiaro e trasparente. Il destino e la mia tenacia hanno voluto che io fossi parte integrante del Made in Italy, di cui credo di essere uno dei principali rappresentanti. Non vorrei essere frainteso e accusato di presunzione, ma, con mio stesso stupore, il nome Armani viene utilizzato per identificare con immediatezza gli aspetti più conosciuti dell’Italia, come una sorta di certificazione di stile e buon gusto.
Gli addetti ai lavori sanno che nei molti decenni della mia carriera ho mantenuto fede a me stesso rapportandomi alla mia Nazione e alla mia città di adozione, Milano, difendendone il nome e usando la mia autorevolezza, esponendomi anche in prima persona quando necessario. Ricordo la mia scelta di sfilare l’ultimo giorno di calendari molto impopolari, chiudendo la settimana della moda, facendo sì che la stampa non disertasse quello che io continuo a ritenere un palcoscenico molto importante nel panorama internazionale. So anche di aver contribuito alla crescita culturale della città. Partecipo a molte donazioni e sostengo eventi benefici, ma il mio senso dello stile mi impone di farlo in modo silenzioso e non strumentale. È vero che oggi riconosco una certa mancanza o impossibilità di esercizio critico da parte della stampa e la mia recente affermazione «La moda è in mano alla Borsa» , che tanto scalpore ha suscitato, voleva fare intendere una verità: allo stato attuale delle cose il sistema della moda deve interagire con le logiche del sistema finanziario. Nulla di nuovo, ma è come se un equilibrio fosse sul punto di rompersi. Qualcosa di logorato nel sistema della comunicazione c’è, e mi fa ripensare a quando all’inizio degli anni 80, con Sergio Galeotti, decidemmo di non sfilare perché ora come allora la stampa sembra inseguire gli effetti sensazionalistici, dimenticando troppo spesso che la moda è fatta di realtà, di suggestione, di sogno che deve tradursi in affezione e vendita. Sappiamo anche che la continua richiesta di novità è un fattore importante, e che spesso la novità sostituisce la bellezza, ma ho la sensazione che si stia andando fuori misura. Io ricerco il consenso sul mio prodotto e non ho bisogno di consensi di altro genere. Ribadisco la mia libertà, l’autonomia di pensiero e la lealtà nei confronti del nostro cliente finale, che ha decretato il nostro successo e ha fatto in modo che potessimo essere ciò che siamo. Caro Direttore, la saluta un vecchietto arzillo e, a quanto pare, molto invidiato.
Giorgio Armani