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 2011  giugno 30 Giovedì calendario

QUELLA LOCOMOTIVA DA ANARCHIA A RACKET

In Emilia, nella notte tra l’11 e il 12 giugno, qualcuno è salito su una motrice, lanciandola contro un treno in sosta. Come nella canzone di Guccini, ispirata a un fatto di cent’anni fa. Stavolta nessuna istanza sociale, ma la solita mano criminale.

Non si sa che viso avesse e neppure come si chiamava, forse lo appureranno «le forze dell’ordine che già in queste ore si stanno impegnando nelle indagini», come recita il comunicato redatto lunedì 13 giugno dalla direzione della Fer, le Ferrovie dell’Emilia Romagna, dipartimento di Reggio.
E non si sa neppure cosa accadde e perché prese la decisione, improbabile una rabbia antica, da escludere un’epica da generazioni senza nome in cui gli eroi son tutti giovani e belli: per ora l’unico fatto certo è che, infrangendo il vetro del finestrino, qualcuno è salito su una motrice in sosta su un binario che corre lungo la Grande Pianura e, nella notte tra sabato 11 e domenica 12 giugno 2011, – pazzo o criminale (più facile la seconda) –, s’è lanciato contro un treno.
Un pazzo o criminale che doveva saperci fare, però, perché gli inquirenti han fatto sapere che chi s’è impossessato del locomotore, nello scalo di Dinazzano Po, frazione di Casalgrande, doveva avere dimestichezza con il mezzo, a cominciare dall’uso fatto della pedaliera: esattamente come ne aveva quel magro giorno, lungo un’altra rotta emiliana, da Poggio Renatico a Bologna, tale Pietro Rigosi. Anche lui, primi anni del secolo – il XX esimo però – macchinista-ferroviere. Anche lui capace di impadronirsi di una macchina a vapore, fino a diventare il protagonista di una leggendaria vicenda ferrata che nel ’72 ispirò la ballata più famosa di Francesco Guccini, la canzone-icona che da quarant’anni ritorna a chiusura di ogni concerto: La Locomotiva. Quel mostro che dormiva, come una cosa viva/ lanciata a bomba contro l’ingiustizia.
Due storie che oggi, per un attimo, viene quasi naturale gemellare, per luogo anagrafico ed esito finale. Prima di attivare lo scambio e deviarle ciascuna sul suo binario temporale, a raccontare in maniera esemplare l’Italia di ieri e di oggi, la confusa istanza libertaria di quella e la micidiale presenza criminale della quale è fatta oggetto questa. Una locomotiva lanciata contro un treno, a distanza di cent’anni o giù di lì, come una descrizione del paesaggio sociale che ci tocca ammirare. E che una volta di più appare stravolto.
Se quella lanciata dal Rigosi contro l’ingiustizia andava a carbone, e c’era da spalarne 40 quintali se volevi arrivare da Bologna a Venezia, quando (come scriveva Carducci, davanti a San Guido) «ansimando fuggìa la vaporiera» – e con lei la vita dei macchinisti se solo il 10 per cento, dopo un lavoro tanto duro, arrivava allora alla pensione –, questa è alimentata a diesel e non deve fare troppo rumore, visto che le guardie giurate di stanza allo scalo non si sono accorte di nulla.
Se quella di cui prese possesso il Rigosi, dirottata a sua insaputa lungo una linea morta, concluse la sua folle corsa contro una vettura (vuota) di prima classe e sei carri merci che si trovavano in sosta alla stazione di Bologna, questa di venti giorni fa è finita anch’essa lungo un binario tronco e contro una fila di vagoni, allo scalo di Dinazzano, ma per volontà del dirottatore, perché quello era lo scopo. Distruggere (un milione di euro di danni) e mandare un segnale a chi di dovere. «Elementi che lasciano indurre», è il comunicato della Fer a parlare, «che non si sia trattato di una bravata o di un atto vandalico o di un gesto di protesta».
Niente a che fare, insomma con il ferroviere anarchico di un secolo fa, sposato, padre di due bambine di tre anni e di dieci mesi, che saltò sulla locomotiva 3541 di un merci per andarsi a schiantare, tanto «che importa morire? meglio morire che essere legato», come raccontò alla Gazzetta Piemontese che gli chiese ragione di quel gesto insensato, quando lo raccolsero che ancora respirava. Niente a che fare con quel «giovane sciagurato» che nello schianto perse una gamba, ma non l’orgoglio e rifiutò il pagamento della liquidazione dell’allora Società delle Strade Ferrate, e sì che ne aveva bisogno per mantenere la famiglia, finché sul documento la dizione «buona uscita» – troppa cordialità in quel “buona” – non venne sostituita da «per elargizione».
No, l’ignoto macchinista del Reggiano non era animato da istanze sociali. Ha messo in moto e al momento giusto s’è buttato fuori. Nessun gesto di romanticheria anarchica o di nostalgico futurismo. «Ci troviamo di fronte a un atto che non ha precedenti e le cui caratteristiche criminali meritano un forte livello di attenzione». Un vero e proprio atto dimostrativo, par di capire. E, appena celate dalla prosa burocratica, le parole tragiche di questa nostra stagione: racket&estorsione.
cfiumi@corriere.it