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 2011  luglio 01 Venerdì calendario

Dal Piave a Venezia, i viaggi di Ernest l’italiano - Non si fa retorica, né si va lontani dal vero, se si dice che in Italia Er­nest Hemingway scoprì sé stesso

Dal Piave a Venezia, i viaggi di Ernest l’italiano - Non si fa retorica, né si va lontani dal vero, se si dice che in Italia Er­nest Hemingway scoprì sé stesso. Aveva appena diciott’anni, fu ferito e vide la morte in faccia, si innamorò e cominciò a capi­re cosa significhi morir d’amo­re, fece il suo apprendistato let­­terario, imparò a bere, la scono­sciuta civiltà del vino che un vecchio continen­te decaduto e de­ca­dente offriva co­me ultimo dono ai nuovi barbari con­quistatori venuti a prenderne il po­sto. Ha raccontato la moglie Mary che la sera prima che lui si ammaz­zasse, quell’inizio di luglio di mezzo secolo fa, «era sta­ta così quieta e se­rena! Avevamo cantato quella vec­chia canzone im­parata a Cortina: “Tutti mi chiama­no bionda”... E poi avevamo ricor­dato Venezia, l’Hotel Gritti, la grande festa che aveva voluto dare per gli amici che accorrevano da ogni parte del mondo... Ci ricordam­mo del vecchio Adamo, il conte Kechler e la cara Adriana Ivani­ch ». Ernest l’italiano... Il Veneto di Hemingway è il ti­tolo del bel volume illustrato, curato da Gianni Moriani (Anti­ga, pagg. 168, 14,90 euro) e che ha fatto da catalogo alla omoni­ma mostra di palazzo Loredan a Venezia, allestita nel cinquan­tenario delle morte. Raccoglie immagini e testimonianze di una giovinezza sfolgorante, di una maturità imponente, di una vecchiaia improvvisa e de­vastante. Nel 1954, quando He­mingway venne per l’ultima volta in Italia, aveva 55 anni e, reduce da un duplice incidente aereo in Africa, era ormai l’om­bra di se stesso. Ha raccontato Roberta Kechler che fu suo pa­dre, il conte Federico Kechler, a farlo visitare dai migliori spe­cialisti italiani del tempo. «Ave­va il rene destro completamen­te spappolato e quando il pro­fessor Vespignani gli fece la ra­diografia, fu stupito che fosse ancora vivo. Rimase qui a Co­droipo, nostro ospite, una deci­na di giorni, sempre a letto. Era un uomo molto coraggioso, mai un lamento, mai un gemi­to ». Dei Kechler, Hemingway era stato ospite sei anni prima, in quella che fu l’ultima estate di San Martino della sua vita, l’au­tunno in cui a Fernanda Piva­no, che per la prima volta se lo trovò di fronte a Cortina, fece l’effetto di «una luce accecan­te, come il sole in un’estate trop­po calda. Chi non l’ha conosciu­to allora, quando l’alcol non l’aveva ancora ghermito,quan­do l’incidente in Africa non l’aveva ancora spezzato e invec­chiato di vent’anni, non può ca­pire il perché del suo fascino». Il ’48 italiano di Hemingway fu un tuffo nel passato sui luoghi della Grande guerra, Schio Fos­salta, Stresa e della propria, per­duta, giovinezza e insieme l’il­lusione di fermare il tempo: an­cora un romanzo, ancora un amore. Di là del fiume e tra gli alberi si chiamerà il primo, la ventenne Adriana Ivancich in­carnerà il secondo, entrambi falliti e però emblematici di quel suo essere «a fighter», un combattente della vita fin quan­do c’era un vita che valesse la pena di combattere... Oltre ai Kechler, furono i ba­roni Franchetti, Raimondo e il figlio Nanyuki, gli amici e i com­pagni di caccia di quell’estate di San Martino. Fiorindo Silot­to, l’allora capocaccia della fa­miglia, ha raccontato anni fa la magia dei casoni da pesca, del­le albe, della natura sovrana e trionfante. «Si usciva per cac­ciare alle tre del mattino, lo por­tavo nella botte, mettevo in ac­qua gli stampi delle anatre e delle folaghe e poi si aspettava. Sparava solo all’alba, il resto del tempo lo passava a scrivere dentro quella botte, fino a che si tornava. Una volta, dopo una battuta, mi regalò 50mila lire. Allora ci compravi un ettaro di terra». Fuori del Gritti, l’albergo ve­neziano che sempre l’ospitò, c’è la copia di un quadro rap­presentante una Madonna che Hemingway regalò ai gondolie­ri dello stazio di Sant’Angelo (l’originale è custodito altro­ve). Nel menu dell’hotel ha il suo posto d’onore il «risotto al­la Hemingway», scampi e bro­detto di pesce. «Sono tornato a curarmi a scampi e Valpolicel­la » ironizzerà lui al tempo del suo ultimo soggiorno. Il giorno in cui mise la parola fine al romanzo veneziano del colonnello Cantwelll scrisse dal Gritti all’amica Marlene Dietrich: «Ieri sono morto per l’ultima volta con il mio colon­nello e ho detto addio alla ra­gazza ed è stato peggio di qual­siasi altra volta». Ma ad Adria­na Ivancich, la Renata di Di là dal fiume e tra gli alberi , lasciò in dono anche una fiaba scritta apposta per il suo nipotino Ghe­rardo, La favola del buon leone , un leone veneziano con le ali che in Africa mangiava solo pa­sta e scampi e non gli esseri umani e che per sottrarsi alle angherie dei suoi malvagi con­fratelli africani tornava in volo a San Marco, salutava suo pa­dre sulla Torre dell’Orologio e poi si faceva servire «un sand­wich di mercante hindu» al­l’Harry’s Bar... Venezia apparve a Hemin­gway «un gioco meraviglioso. È una specie di solitair e ambu­lante e se si vince si vince la feli­cità dell’occhio e del cuore». In Di là del fiume e tra gli alberi ciò che gira a vuoto, usurata, è la straordinaria macchina del dia­logo di cui un tempo aveva avu­to il segreto, ma ancora adesso l’ambientazione lagunare la­scia ammirati: «Era tutto ghiac­ciato, gelato di fresco durante il freddo improvviso della notte senza vento. Era flessibile co­me gomma e cedeva sotto la spinta del remo. Poi si spezza­va di scatto come una lastra di vetro, ma la barca procedeva di poco». Ben trovato, ben torna­to, Ernest l’italiano.