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 2011  luglio 01 Venerdì calendario

“Noi vespisti, italiani veri senza confini e senza età” - Perché prima l’ho desiderata, poi l’ho avuta e non mi ha deluso mai»

“Noi vespisti, italiani veri senza confini e senza età” - Perché prima l’ho desiderata, poi l’ho avuta e non mi ha deluso mai». «Perché quando sono nato c’era già ed esisterà ancora per molto». «Perché quando ero piccolo andavo ai 2mila all’ora su quella di mio fratello, spenta, ferma sul cavalletto». Le spiegazioni dell’amore per la Vespa sono numerose come gli attributi di Dio per gli scolastici medievali. E dividono l’uomo metropolitano in due semplici categorie. Chi la possiede, da una parte; pedoni, motociclisti, ciclisti e resto del mondo, dall’altra. Chi la usa, non solo gode di macinare qualche decina di chilometri con un litro, di vincere il traffico, di infischiarsene della meteorologia (neve compresa), ma sa anche di cavalcare un mito. Per questo i raduni dei vespisti grondano un fascino esoterico tenace quanto la storia. Nacquero sul finire dei ‘40, inventati da Tassinari, e pensati da Enrico Piaggio come un potente strumento di affezione, ma esistono ancora, sebbene il mondo sia tutt’altro, nei trasporti, nei viaggi, nella socialità. In Italia esistono 400 Vespa Club; nel mondo, qualche migliaio, con oltre un milione di iscritti. Da ieri, e fino a domenica, il centro di Torino accoglie 3000 vespisti, che sfileranno in parata per poi disperdersi negli itinerari turistici piemontesi, per confabulare di ammortizzatori e carburatori, per stare insieme ad altri fratelli impallinati di modelli vintage o nuovi di zecca. «È un mondo senza confini e senza età - dice Marco Zangrilli, l’organizzatore - c’è il manager che usa la Vespa come quando faceva il figlio dei fiori, ma anche l’operaio, il ragazzo ventenne e l’ottantenne. C’è persino chi partecipò al raduno per Italia ‘61, e ora festeggia in Vespa 50 anni in più di Repubblica». Arrivano da lontano. Grecia, Portogallo, Belgio, Sicilia. Dopo giorni di viaggio, in sella al mezzo lento, tenace, resistente. Un po’ pesti, ma felici. Perché la fatica caparbia fa parte del mito. La Vespa è dunque un rito, un culto, un credo. Uno dei simboli italiani più celebri al mondo, un pezzo di storia repubblicana. Fu ideata nel ‘44, e come accade a tutte le idee geniali all’inizio non le pronosticarono un futuro. Piaggio, secondo la leggenda, disse che il prototipo sembrava una vespa, e l’aggeggio che all’inizio doveva chiamarsi «Paperino», fece il miracolo di rendere perfino amichevole un molesto imenottero. Poi con le sue forme morbide, la sua carrozzeria tenace, il suo motore invincibile accompagnò l’Italia della ricostruzione. Fu simbolo de «La dolce vita», di «Vacanze romane», del «Diario» di Moretti. Fu clonata dai comunisti russi, con la Viatka. E arrivò in ogni angolo del mondo, dal Vietnam alla Patagonia. I francesi, con un cannoncino, la usarono nelle guerre coloniali. Oggetto di culto in pubblicità, cinema e design, è stata anche un normale pezzo di famiglia italiana (nei ‘60 ce n’era una ogni 52 cittadini). E una mostra fotografica organizzata per il raduno torinese la racconta in questa dimensione microstorica attraverso 100 immagini (per i 150 anni dell’Unità). La Vespa, nata per essere rivoluzionariamente comoda, in modo che anche le donne e i preti la potessero guidare, è in posa nei pranzi di famiglia, nelle feste di paese, nei carnevali. Gli uomini in cravatta la usavano per recarsi al lavoro su strade ancora dissestate, le donne per inventarsi vacanze libere e solitarie, ben prima di Thelma e Louise (e molto meno estreme). Piaceva agli sposi, che la mettevano in posa come un testimone, ai carabinieri da «Pane amore e fantasia», ai missionari che la ottenevano in regalo dai parrocchiani per sfidare le savane africane. Risparmiava fatica a visi contadini e a yuppies con l’istinto del vintage. Vespa era, ed è, tutto questo. Perché continui a piacere così visceralmente dopo quasi 70 anni quasi uguale a se stessa, non si sa. Eppure molti non si insedierebbero mai su moto anche più comode, anche più tecnologiche, anche più potenti. In una foto della mostra c’è Francesco Morreale, nato nel 1882 in un paese di Sicilia. Tiene per manubrio, orgoglioso, la sua Vespa, che poi passò al figlio, al figlio del figlio, al figlio del figlio del figlio, come in un romanzo di Verga. Il mondo di allora è diventato cenere: quella Vespa circola ancora.