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 2011  luglio 01 Venerdì calendario

MARE NOSTRUM DELLE EPIDEMIE

Nello storico intrecciarsi di epidemie e sanità, l’Italia ebbe un ruolo peculiare, privilegiato. Distesa in uno spazio liquido solcato da navi e da andirivieni di uomini e cose, la penisola presentava la ricettività patologica di una geografia umana immersa in un “mare epidemico” qual era, tra Medioevo e Rinascimento, il Mediterraneo.
La mercantilizzazione dell’economia e i traffici marittimi con paesi lontani e diversi accelerarono la circolazione delle malattie epidemiche, contribuendo alla “unificazione microbica del mondo” (come si espresse lo storico Emmanuel Le Roy Ladurie), a una globalizzazione morbosa in cui la società italiana dimostrò d’essere una “società aperta” non solo agli scambi commerciali e alle invasioni straniere, ma anche alla libertà di ammalarsi.
Le repubbliche marinare fecero da tramite con l’Oriente, con le popolazioni asiatiche dove una più stretta promiscuità tra macroviventi – uomini e animali – facilitava quegli scambi e salti interspecifici che oggi sono riconosciuti come fattori di virulentazione di microviventi – batteri e virus – e come fattori di rischio epidemico. Nel 1347 dodici navi genovesi, sfuggite all’assedio che i tartari avevano posto a Caffa, base in Crimea dei traffici della Dominante nel Mar Nero, navigarono come vascelli fantasma con le stive colme di grano ucraino e di topi e con le tolde affollate di marinai appestati e moribondi.
Genuensis ergo mercator, mercator ergo pestiferus. La peste di metà Trecento, che cancellò dal mondo dei vivi trenta (su cento) milioni di europei, fu portata dai navigli di Genova. Ma fu proprio Genova, con altri avveduti Stati italiani, ducati o repubbliche, a istituire quegli Uffici di sanità che, via via perfezionati, seppero operare Per la comune salvezza dal morbo contagioso, come si intitola il libro sui controlli di sanità nella Repubblica di Genova (edizioni Città del Silenzio, Alessandria 2011) scritto da Giovanni Assereto, docente di storia moderna nell’ateneo genovese. Sugli Uffizi di sanità dell’altra grande, e rivale, repubblica marinara, la Serenissima, esistevano già il volume collettaneo Venezia e la peste. 1348-1797 (Marsilio 1979) e i successivi lavori di Nelli-Elena Vanzan. Quella di Assereto è un’opera parimenti meritoria, articolata tra “governo della peste”, “polizia dei poveri”, “spurghi in lazzaretto”, “piccoli e grandi allarmi”. Sono sottotioli che rimandano a problemi socioeconomici, epidemiologici, migratori, sanitari di viva attualità. Oggi la globalizzazione dell’economia e del lavoro, del turismo e dell’istruzione, nonché la migrazione, fattasi massiccia, di una popolazione afro-asiatica sospinta da eurotropismo incalzante, finalizzato alla condivisione del benessere europeo, rende assai più facile che in passato la propagazione mondiale degli agenti infettanti, favorita anche dall’aumento di densità demografica nelle aree urbane delle fasce più povere.
Allora Tutti indietro?, come recita il titolo del libro di Laura Boldrin (Il Mulino 2010), portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, reagendo a certa ideologia od opinione corrente. «Immigrati o rifugiati, poco importa. Oggi in Italia è più semplice parlare di clandestini e rimandarli tutti indietro». Per quanto attiene all’epidemiologia, che ammette una incentivazione dei rischi, c’è una duplice lezione da apprendere: che un buon sistema di sorveglianza è in grado di individuare e isolare un agente infettivo prima che si scateni una epidemia; e che un buon sistema di accoglienza è in grado di creare una integrazione accettabile, proponibile come risorsa per la “società aperta” del nostro futuro. Nel passato, le repubbliche marinare italiane fornirono modelli sanitari poi imitati da tutta Europa: se non un primato, almeno una priorità. Un’altra lezione di cui fare tesoro.