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 2011  luglio 01 Venerdì calendario

MORAVIA CHE NOIA LA RESISTENZA - DOPO L’8 SETTEMBRE ’43

come ha scritto Emilio Gentile, «crollato miseramente l’ambizioso mito di una Grande Italia, che voleva dare l’assalto alla storia per fare la storia», non restava che una via d’uscita: «fuggire dalla storia, cercando in ogni modo […] di sottrarsi alla furia della guerra». Questa divenne l’unica aspirazione degli italiani – la vita come mera sopravvivenza materiale –, al di là delle minoranze che per un anno e mezzo combatteranno aspramente armi in pugno. Il disimpegno degli intellettuali assunse nuove sfumature. Lo testimoniano, fra l’altro, nel novembre ’43, i due inviperiti articoli in cui Mussolini denunciò gli scrittori e giornalisti ch’erano ormai passati al nemico o, piú probabilmente, s’erano imboscati.
È arrivato dunque il momento di riesumare gli eloquenti ‘reperti’ disseminati dagli uomini di cultura che, a vario titolo, si ritrassero da una scelta ‘militante’, preferendo invece nascondersi, imprigionarsi in una stanza, dissociarsi dalla propria epoca. ALBERTO MORAVIA ha piú volte parlato del suo romanzo La ciociara (1957) come d’un «omaggio alla Resistenza». All’origine c’è un dato autobiografico: i nove mesi vissuti da sfollato, insieme alla moglie, Elsa Morante, in una capanna di San-t’Agata, presso Fondi di Ciociaria, dal settembre ’43 al maggio ’44. Passeranno piú di dieci anni tra la prima e la seconda, definitiva stesura di quest’opera. Poco dopo aver pubblicato La romana, nel ’47, Moravia aveva infatti pensato di scrivere un romanzo che avesse per tema la seconda guerra mondiale e la sua personale vicenda di sfollato. Però, buttate giú un’ottantina di pagine, si bloccò perché non gli «pareva di avere ancora abbastanza distanza, diciamo cosí, di contemplazione degli eventi che volevo narrare».
La trama della Ciociara è presto detta. Cesira e Rosetta, madre e figlia, due popolane romane costrette ad abbandonare la città dopo l’armistizio, trovano rifugio in una piccola comunità di contadini della Ciociaria, dove trascorrono nove mesi di stenti, in attesa della liberazione di Roma. L’altro protagonista è Michele, studente universitario, anch’egli sfollato con la famiglia. Michele è un borghese antifascista, consapevole di quanto la sua classe sociale si fosse genuflessa a Mussolini. Il giovanotto cerca di far proseliti ma, con l’eccezione di Cesira e Rosetta, nessun sembra dargli retta. Ciò che preme ai contadini è infatti soltanto la rapida conclusione del conflitto. Non conta quale dei due eserciti stranieri prevarrà: conta soltanto poter ritornare alla propria vita di un tempo. Sconsolanti le pagine finali: Michele è ucciso dai tedeschi in fuga, mentre Cesira e Rosetta, nel corso dell’ingrato rientro a Roma, sono aggredite all’interno d’una chiesa da alcuni soldati francesi marocchini, che violentano ripetutamente, sotto l’altare, la figlia.
Al di là delle velleità di Michele, non c’è davvero alcuna traccia di «Resistenza» in questo libro. Gli stessi fascisti, di fatto, brillano per la loro assenza, laddove a dominare è un mondo rurale, impermeabile alla guerra.
Ritorniamo allo sfondo autobiografico. Durante l’interregno di Badoglio, Moravia aveva pubblicato due articoli sul «Popolo di Roma», diretto da Corrado Alvaro. Si trattava, senza dubbio, d’interventi antifascisti, anche se il regime mussolinano era interpretato quale cancro degenerativo d’un modello populista abbracciato pure da settori dell’antifascismo. Dopo l’8 settembre, lo scrittore rischiava dunque l’arresto. Onde la sua fuga da Roma, senza prender parte alla Resistenza.
Moravia ricorderà spesso il periodo trascorso a Sant’Agata come «un’esperienza piuttosto bella», «uno dei momenti piú felici della mia vita». Nel-l’intervista autobiografica magnificherà la sua stagione da imboscato, «questa attesa delle truppe alleate, questo vivere sempre all’aperto immersi nella natura, questa solitudine [che] formavano intorno a me un’atmosfera insieme disperata e piena di speranza che non ho piú ritrovato da allora». Per poi concludere: «Adesso dico scherzosamente che la guerra in fondo non è che un lungo picnic. In tutti i casi io ero abbastanza consapevole che era un’avventura e la vivevo appunto con quel tanto di contemplazione che ci accompagna nelle avventure». Non basta. Confesserà pure che nel ’39 non era troppo atterrito dai venti di guerra: «avevo una specie di curiosità autolesionistica di vedere cosa sarebbe successo in Europa». Nei primi anni del conflitto, per di piú, risiedeva almeno sei mesi all’anno a Capri, con la Morante. La «meravigliosa natura di quell’isola» funzionava da «contrappeso di eternità» in grado di equilibrare «gli orrori sociali della guerra e del fascismo».
Nessun interesse, invece, per il risvolto politico di quegli eventi. All’epoca, infatti, Moravia si crogiolava in «un momento di assoluta incredulità», di «amara delusione»: «non credevo piú né all’antifascismo, né al fascismo, né al comunismo, né al capitalismo». Il fascismo sembrava trionfare ovunque, ma egli, pur odiandolo, odiava anche «quelli che non sapevano resistergli» e, perciò, «anche le masse che affluivano nei fascismi e nello stalinismo». Saranno queste idiosincrasie, probabilmente, a stimolare la sua curiosità contemplativa. Meglio la solitudine che i bagni di folla: «sento che fra l’artista e le masse il rapporto è veramente sgradevole, penoso. È un rapporto basato su un malinteso, sull’adulterazione, sulla demagogia».
Nel ’46 Moravia scriveva L’uomo come fine, un ambizioso quanto ingenuo saggio politico, che rispecchiava il suo «stato d’animo». Una confutazione, un po’ scolastica, del realismo machiavellico, che aveva degradato l’uomo «da fine a mezzo tra gli altri mezzi» e legittimato le ecatombi del Novecento. La sua requisitoria si concludeva con parole rinunciatarie: «Se l’uomo vuole ritrovare un’idea dell’uomo e strapparsi dalla servitú in cui è caduto, deve esser consapevole dell’esser suo di uomo e per raggiungere questa consapevolezza deve abbandonare una volta per tutte l’azione per la contemplazione». E s’è visto quante volte la percezione contemplativa ed estetizzante della guerra sia ritornata nei suoi ricordi.
Facciamo un passo avanti. Nel ’51 lo scrittore romano pubblicava Il conformista, il suo discusso romanzo ispirato all’assassinio dei fratelli Rosselli (dei quali era cugino).
In particolare, il personaggio del professor Quadri, esule antifascista a Parigi, assassinato con il concorso del protagonista Marcello (il «conformista»), non è certo una figura solare: uomo sinistro e imbelle, ipocrita, sposato con una donna lesbica, Quadri è un intellettuale snob, dalla cultura libresca, che ha scelto di passare dal pensiero all’azione abbracciando un dilettantismo cospiratorio goffo e inconcludente. Siamo ben lontani, insomma, dalle limpide figure di Carlo e Nello Rosselli. Ci troviamo, piuttosto, davanti a una storia ove «fascismo e antifascismo si incontrano, si riconoscono, si attraggono, giacciono sullo stesso letto, di nuovo si scontrano, quasi si elidono. Il male si sa dove stia, ma è il bene che non si sa dove stia, tanto la personalità di Quadri è fatua e sfuggente». Se la letteratura s’impegna, aveva dichiarato Moravia a Ferdinando Camon nel ’67, «corre il rischio continuo di essere trasformata in propaganda […] Perciò l’impegno è pericoloso».