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 2011  luglio 07 Giovedì calendario

SE QUESTO È UN CORPO

Il corpo è mio e me lo gestisco io, così suonava uno slogan femminista di qualche decennio fa. Quella che allora sembrava una sfida contro i poteri che modellavano con violenza, e in modo coercitivo, i corpi - la Famiglia, la Chiesa, lo Stato - oggi è diventata una parola d’ordine della nuova grammatica visiva che ha posto al proprio centro il consumatore onnipotente, e con lui l’industria farmaceutica e l’industria alimentare, la moda e la pubblicità. Il corpo è divenuto un oggetto che si può, e spesso si deve, perfezionare. Detto altrimenti, il corpo, come scrivono gli psicologi che se ne occupano, è "sempre più un prodotto personale". Per questa ragione esso non appare più come un elemento "dato", bensì come un "qualcosa" che può essere modellato a piacimento seguendo modelli visivi e mentali prodotti dalle riviste, dal cinema, dalla televisione e dalle stesse interrelazioni sociali.
Uomini e donne non aspirano più, come accadeva sino agli anni Cinquanta e Sessanta, a vestirsi come i divi che ammiravano, ma a diventare, grazie alla chirurgia estetica, proprio come loro: labbra alla Angelina Jolie, seni di Marilyn, pelle alla Michael Jackson. La psicoanalista Alessandra Lemma in un recente studio, "Sotto la pelle", dedicato alle modificazioni corporee, ricorda come tra le bambine sia consueta la frase: "Voglio i capelli come Barbie".
I corpi postmoderni - perché di questo si tratta - sono accompagnati da fantasie di modificazione di sé che s’ispirano a fantasie infantili, vissuti adolescenziali, relazioni sentimentali con il proprio Olimpo di dive e divi ammirati in televisione, o al cinema, non necessariamente personaggi lontani, ma come i partecipanti al "Grande Fratello", i divi-della-porta-accanto, che tutti possono potenzialmente diventare.
Lemma scrive che le forme più compulsive di modificazione corporea riflettono una difficoltà "a integrare questo basilare fatto della vita: non possiamo nascere noi stessi". Queste immagini di corpi femminili e maschili, corpi manipolati e deformati attraverso interventi di chirurgia estetica, possiedono qualcosa di malinconico e al tempo stesso di sconcertante: la dipendenza psichica da se stessi, una forma di autonomia psicologica che fa del corpo lo specchio della propria mente, uno specchio che vorrebbe aprirsi allo spettacolo del mondo, eppure non ci riesce. Una forma di autismo della nuova pelle, quella modellata da bisturi, sostanze chimiche e manipolazioni fisiche. Lungo l’asse che va dalla tintura dei capelli alla rinoplastica, e persino all’attribuzione di una nuova identità sessuale, noi ora possiamo leggere il passaggio da una cura amorosa di sé a una cura sanguinosa, come scrivono due psicologi.
Ma come siamo arrivati a tutto questo? A metà degli anni Novanta una giornalista americana, Marilee Strong, aveva raccontato in un libro, "Un urlo rosso sangue", un fenomeno ignorato o allora rimosso: i cutters; persone apparentemente normali, con un buon mestiere o lavoro che si tagliavano con lamette, forbici, coltellini, si ustionavano le braccia con sigarette, si perforavano la pelle mediante spille, siringhe e altri oggetti, uomini e donne bianchi, di buona cultura, intelligenti, sensibili, con buone posizioni lavorative. Nel suo racconto la Strong rifletteva sul fatto che la pelle è il primo e più sensibile degli organi umani. Il sistema nervoso, scriveva nel bestseller degli anni Sessanta "Il linguaggio della pelle" lo psicologo Ashley Montagu, è una parte sepolta della pelle, mentre la pelle è la parte più esposta del sistema nervoso. Quelle autopunizioni indagate dalla giornalista americana funzionavano come una cura per sfogare la tensione, per mettere fine a sensazioni di morte o di irrealtà, per espellere sentimenti ritenuti malvagi e pericolosi dal proprio Io. Tutte le pratiche autolesive apparivano come un sistema estremo per tenere a bada il flusso di emozioni, per riempire il vuoto d’anima, la dolorosa sensazione di non esistere; un modo per consolarsi e rassicurarsi di esserci ancora, di esistere attraverso il dolore fisico.
Il diffondersi del tatuaggio, delle varie e differenti scritture del proprio corpo, come il piercing, adottati da quelli che vennero poi chiamati i moderns primitives, apparivano sempre più come rituali di appropriazione di se stessi. Alla fine degli anni Novanta erano ormai milioni le persone che si facevano modificare il viso, il seno, le gambe, che accettavano di farsi rompere e rifare il naso, pompare collagene nelle labbra, risucchiare il grasso dalla pancia o dal deretano, trapiantare i capelli, aumentare le dimensioni del pene, stirare la pelle del viso. L’idea che il corpo fosse un confine inviolabile era dunque caduta in modo definitivo a favore della sua continua manipolazione. Il che comportava anche un progressivo cambiamento della stessa idea d’identità personale, dell’Io: non più un monarca padrone del proprio territorio, bensì concepito ora come una molteplicità di identità mutanti, in via di continua definizione, verità proclamata con evidenza da questi scatti fotografici.
Il corpo è una sorta di ossessione; in alcune istantanee appare evidente che si tratta di un involucro abitato da un estraneo che può essere accettato oppure combattuto, così come la pelle diventa un campo di battaglia di una continua guerra tra il "dentro" e il "fuori". La violenza diventa lo stigma stesso di questo involucro che costituisce la soglia, il punto di scambio tra l’Io e il mondo esterno. Uno degli elementi che più colpiscono in queste immagini è che la manipolazione della pelle avviene sotto la spinta dello sguardo degli altri, per cui il risultato della chirurgia estetica si presenta come il prodotto dello sguardo stesso dell’altro che il nuovo corpo o viso cerca di tenere sotto controllo. Raggiungere una nuova immagine di sé produce una nuova immagine esterna, come sottolinea Alessandra Lemme, e insieme la convinzione che vi sia anche, come corrispettivo, una coesione interna. Il proprio corpo è sentito come il prodotto di un gioco di sguardi, tra il proprio e quello di chi ci guarda, così che la sua manipolazione diventa il mezzo con cui si stabilisce una sorta di equilibrio tra "dentro" e "fuori".
Uno psicologo, Herbert Rosenfeld, ha sviluppato una distinzione molto interessante tra il "narcisista con la pelle sottile", che è scalfito o ferito dallo sguardo dell’altro, e il "narcisista con la pelle spessa", che invece possiede una corazza così ruvida da respingere quello sguardo; cui aggiunge la figura del borderline, che invece si sente, come i personaggi raccontati dalla Strong, una sorta di colabrodo da cui i contenuti psichici posso sfuggire continuamente. La galleria di uomini e donne di questa rassegna d’immagini corrisponde, con qualche approssimazione, a queste tre categorie. Una cosa appare evidente: il corpo è l’arena di una potenzialmente spaventosa mancanza di controllo (Lemme). Le tecniche di manipolazione invece che calmare il disagio e l’ansia diventano i modi stessi con cui questi si manifestano all’esterno. L’effetto che le fotografie producono è infine quello di lasciarci interdetti e stupefatti: in questi alieni e aliene scopriamo la nostra stessa umanità ferita e dolente.