Giampiero Mughini, Libero 30/6/2011, 30 giugno 2011
IL RITORNO DEL VERO FASCIOCOMUNISTA
Era nato in terra di Romagna, lì dove le parole “ripoblica” e “poletica” si impastano con il pane e talvolta lo sostituiscono. Nato nel 1911 a Porretta Terme, morto a Roma nel 1996, Fidia Gambetti avrebbe oggi cent’anni. Negli anni Trenta era stato un fascista di sinistra ardente e irrequieto ma anche un poeta la cui voce venne subito identificata e riconosciuta. Volontario nella sciagurata campagna di Russia, venne fatto prigioniero dai sovietici nel dicembre 1942, e in quell’occasione gli cadde e rimase sepolto nella neve un portacarte tascabile in cuoio dove Gambetti conservava le lettere che dall’agosto al novembre del 1942 gli aveva inviato Ezra Pound.
In un lager siberiano dov’era fra i non molti soldati italiani sopravvissuti alle marce forzate e alla micidiale epidemia di tifo petecchiale, avvenne la sua conversione dal fascismo al comunismo. Un itinerario morale e intellettuale percorso da tanti della sua generazione, da Felice Chilanti a Romano Bilenchi, da Ruggero Zangrandi a Davide Lajolo: quelli che nel gergo comunista del secondo dopoguerra erano chiamati “i cameragni”, perché erano stati prima camerati e poi compagni.
Dal 1946 e per vent’anni, prima da condirettore del settimanale Vie Nuove e poi da caporedattore del quotidiano Paese Sera, Gambetti è stato una delle firme più note del giornalismo comunista. Nel 1952 vinse il premio Saint-Vincent per la migliore inchiesta giornalistica dell’anno, una lunga “inchiesta” pubblicata a puntate dall’Unità su quel che era stato e come era stato il fascismo italiano dal 1919 al 1945. Finita l’avventura giornalistica con le sue dimissioni da Paese Sera, alla metà degli anni Sessanta e fino al 1974 Gambetti divenne il direttore della celeberrima libreria Rinascita di via delle Botteghe Oscure, e questo fu l’ultimo suo incarico pubblico all’interno del Pci.
Da uomo che aveva attraversato il secolo e ne era stato un testimone eccezionale, prima al tempo del fascismo e poi al tempo dell’italo comunismo le aveva viste tutte e li aveva conosciuti tutti e da vicino. Drammatica era stata la sua delusione di un fascismo che aveva sperimentato da dentro e in prima fila; grande fu la sua delusione di un mondo comunista sotto la cui retorica covavano le rivalità più accanite e le prepotenze professionali più sofisticate. L’esperienza da direttore della libreria Rinascita fu la goccia che fece traboccare il vaso. Trovò un disastro economico, la disorganizzazione più sistematica, un’ottusità a tutti i livelli che faceva male: «Non passa giorno senza il cretino di turno. Il dirigente cretino, il funzionario cretino, il compagno di base cretino, l’amico cretino, l’avversario cretino. Si meravigliano. Sapete perché? Perché vendiamo i libri di tutti gli editori, inclusi non solo Longanesi e Rusconi, ma addirittura quelli de Il Borghese, di Volpe e di altri editori che tanti democratici con la coda brucerebbero sulla pubblica piazza».
Si trattasse dell’organizzazione dell’esercito fascista che andò all’assalto delle steppe russe o dell’organizzazione della più celebre libreria comunista degli anni Sessanta e Settanta, era sempre l’eterna “Caporetto” italiana, quella parola che a sette anni Gambetti aveva sentito pronunciare per la prima volta nella sua famiglia e anche se non sapeva bene che cosa significasse. Lo capì nel giugno 1940, quando fece parte delle truppe che dovevano piantare il pugnale nelle spalle di una Francia schiantata dalle divisioni corazzate nazi e alla quale avevamo dichiarato guerra. In tutto e per tutto Gambetti disponeva di un fucile che non sapeva usare e di un paio di bombe a mano che non sapeva utilizzare. Quei pochi metri che non riuscimmo ad avanzare ci costarono un paio di migliaia tra morti e feriti. Non fosse stato che la Francia nel frattempo si era arresa a Hitler, lo scrive Gambetti in uno dei quattro libri che costituiscono la sua imprescindibile memoria autobiografica del secolo, le loro truppe ci avrebbero ributtato indietro sino a Genova.
Un migliaio di pagine in tutto, scritti uno appresso all’altro in trent’anni. Quattro libri insostituibili e legati assieme da un filo di ferro. Aveva cominciato a lavorarci già nel lager sovietico. Arrivò per primo, nel 1949, il libro dedicato ai suoi compagni che andarono in Russia con le armi, e la più parte non tornarono. Poi, nel 1967, il racconto degli anni in cui aveva indossato la camicia nera e ci aveva creduto e il suo faro fra i giovani intellettuali fascisti era stato Berto Ricci, quello che Indro Montanelli ha sempre indicato come il suo maestro. Terzo libro, nel 1976, quello intitolato La grande illusione e a quel titolo non c’è nulla da aggiungere, e ne ho qui la copia tutta sottolineata a matita rossa e blu. Nel 1989 la prima edizione del bellissimo Dietro la vetrina a Botteghe Oscure, il diario da quel suo osservatorio alla libreria Rinascita. E anche se c’è un quinto libro autobiografico, forse il più doloroso e acre di tutti, uscito nel 1992 da un piccolo editore col titolo Comunista perché, come. Sul frontespizio portava alcune righe che avevo dedicato a Fidia in un mio articolo su Panorama.
L’ho frequentato molto negli ultimi otto anni della sua vita, in quella sua modesta casa da giornalista in pensione a Monteverde. Era una miniera inesauribile di ricordi e di commenti. Dopo la morte e l’agonia straziante della moglie Jole, aveva trovato una nuova compagna, molto più giovane di lui. Fu lei a telefonarmi un mattino a dirmi che il tumore lo aveva ucciso. Per pura viltà, perché non volevo vederlo senza più la gran vita che aveva addosso, non sono andato al suo letto di morte. Sono adesso orgoglioso che la provincia di Firenze, nel quadro di una sua iniziativa a ricordare una trentina di italiani che avrebbero oggi cent’anni, mi abbia scelto a ricordare la vita e il destino di Fidia a Palazzo Riccardi, il pomeriggio di oggi.
Giampiero Mughini