Michele Farina, Corriere della Sera 29/06/2011, 29 giugno 2011
MAURITANIA, I PADRONI A PROCESSO. UNA SPERANZA PER I BIMBI SCHIAVI
Sono le facce inconsapevoli di una rivoluzione che si muove fuori dai nostri radar: Said ha 13 anni, Yang ne fa 8. Sono nati e cresciuti schiavi: uno a curare cammelli, l’ altro a pulire latrine dormendo sotto una tenda in cortile. Certo questa non è una novità in Mauritania, Paese di tre milioni di abitanti da sempre divisi tra arabi e neri dove la schiavitù è per nascita, proibita sulla carta (da una legge del 2007) e tollerata nella pratica. «Anche nella capitale Nouakchott - dice al Corriere Nicola Quatrano, 58 anni, magistrato napoletano presidente dell’ Ossin, l’ Osservatorio Internazionale per la violazione dei diritti umani - quasi tutto il lavoro domestico è ancora svolto da schiavi». Ma la novità c’ è ed è significativa: questa volta i padroni vanno a processo, cominciando dal signor Cheikh Ahel Houssein, 33 anni, professione poliziotto. Schiavista in divisa? Gran parte dell’ élite amministrativa e anche giudiziaria del Paese appartiene a famiglie che hanno praticato o praticano la schiavitù. Nessuna sorpresa se sul banco degli imputati per la servitù di Said e Yang andrà gente rispettabile appartenente alla classe media, in tutto sei tra fratelli e sorelle. Più la madre dei ragazzini, Selka: probabilmente ha ottenuto la libertà lasciando senza fare storie i figli ai suoi padroni che lei adesso ancora omaggia, sostenendo che non hanno fatto nulla di male. Pazzesco, anzi normale. Da quelle parti si incontrano servi a vita felici di esserlo, che hanno un rapporto talvolta filiale con i propri padroni e un’ idea predefinita del proprio destino: «Preferiamo la libertà in paradiso a quella sulla terra - dicono i vecchi schiavi - perché chi sfida l’ ordine delle cose va all’ inferno». Ma intanto sulla terra di Mauritania, all’ ombra della primavera araba e di un’ estate più o meno disillusa, è scoppiata una piccola rivoluzione. Che non scende in piazza come al Cairo o si fa ammazzare come a Damasco, però è mossa da uno spirito simile e cioè dall’ idea che l’ impossibile sia diventato possibile. Ribaltare il tabù dei tabù, nel Paese dominato dai Mauri (i mori), significa ribellarsi alla consuetudine della schiavitù (dei neri) con la stessa impaziente consapevolezza dimostrata dai giovani nelle strade di Tunisi o (adesso) in Marocco. Qualcosa si muove anche più a Sud, tra l’ Atlantico e il Sahara. E un riflesso arriva in Italia: domani alla Camera Penale di Napoli l’ Ossin promuove un incontro a cui parteciperà anche Biram Abeid, 45 anni, motore del nuovo movimento antischiavista mauritano. L’ Osservatorio si impegna a monitorare il processo ai padroni di Said e Yang (si attende la data della prima udienza) che rischiano fino a 10 anni di carcere. Il loro non è un caso isolato. Negli ultimi sei mesi almeno una quindicina di ragazzini sono stati liberati grazie alle denunce dell’ Ira, l’ organizzazione di Abeid che conta alcune migliaia di attivisti «spie» in tutto il Paese. Dopo decenni di impunità nell’ élite di Nouakchott si è sparsa una vera e propria ossessione, la paura mai provata di essere indagati: centinaia di piccoli schiavi sono stati temporaneamente liberati o nascosti. Condanne? Finora l’ unico condannato è stato Biram, per le proteste toste e i sit-in davanti ai commissariati nel dicembre 2010. Condanna di un anno. «Visto cosa succede a ribellarsi?» ha detto trionfante il padrone di Mbarka, la ragazza schiava che vedete in questa pagina. Poi è arrivata la grazia, Biram ha continuato nella sua lotta. Lei ha preso coraggio ed è andata da lui con la storia delle sue bambine, Douida e Ouhita, 7 e 9 anni. Mbarka è stata stuprata dal padrone e dal primogenito, che la portava in campagna con il 4x4 e la violentava dopo aver radunato le capre. Uno dei due è il padre delle piccole. Mbarka è l’ altra faccia di Selka, la madre dei fratellini Said e Yang, quella che difende la schiavitù e che è stata denunciata dalla sorella ventiduenne (a cui adesso i piccoli sono affidati). Da sola Mbarka ha avuto il coraggio di denunciare il padrone, che le aveva dato il permesso di vivere «fuori», con il marito, in cambio di un lavoro a giornata non retribuito e soprattutto in cambio della vita di Douida e Ouhita. Il padrone non è stato processato. La parola della ragazza contro quella dell’ uomo, che tra l’ altro (anzi soprattutto) sarebbe cugino del presidente della Repubblica Mohammed Abdel Aziz. Il golpista Abdel Aziz rimane al potere (non c’ è rivolta di piazza che lo minacci) e il cugino l’ ha fatta franca. Però Douida e Ouhita cominciano una nuova vita sull’ onda di una piccola rivoluzione fuori dai nostri radar. Quando Nicola Quatrano le ha incontrate, ha chiesto loro cosa fosse la libertà: «Libertà - hanno risposto - è andare a scuola».
Michele Farina